Franco Berardi (Bifo), bolognese, classe 1949, è scrittore e filosofo. È autore di decine di libri sui movimenti e le trasformazioni del capitalismo pubblicati da diverse case editrici, italiane e non solo.
Ti abbiamo visto promotore e sostenitore della lista Tsipras per le prossime elezioni europee. Quanto credi che questa tappa possa essere l’inizio di un processo costituente per ‘rifondare l’Europa’, che sappia incrociare realmente i bisogni e i desideri di chi sta subendo le conseguenza delle politiche di austerity? Qui a Taranto, ancora scossa dalle vicende giudiziarie degli ultimi due anni, aleggia una sfiducia complessiva e indistinta nei confronti della rappresentanza. Quali possono essere secondo te, i punti cardine di questo processo costitutivo, che possano guardare oltre le infinite divisioni a sinistra?
Ho appoggiato la lista Tsipras fin dal primo momento in cui ne ho sentito parlare. Ho anche aggiunto (a un giornalista che mi intervistava per la rivista Gli altri) che avrei votato e sostenuto la lista anche se penso che non serva a niente. Il punto è questo: la democrazia rappresentativa non ha più alcuna efficacia, e mi chiedo se non sia la politica in generale, come arte del governo e della scelta tra alternative ad aver perduto qualsiasi efficacia. Il punto è che la politica come noi la conosciamo muore nel momento in cui automatismi di tipo finanziario e tecnologico rendono impossibile la scelta tra alternative. Credo che questa sia la realtà in cui
viviamo, la realtà per cui l’uomo più potente della terra, il presidente degli stati uniti, dopo essersi presentato con lo slogan-esorcismo ‘Yes we can’ ha mostrato di non potere quasi nulla contro gli automatismi che lo hanno ridotto a figura quasi decorativa.
Nel tuo ultimo libro presenti un manifesto poetico del ‘dopofuturismo’, affermando:
Siamo sul promontorio estremo dei secoli (…). Dobbiamo assolutamente guardare dietro di noi per ricordare l’abisso di violenza e di orrore che l’aggressività militare e l’ignoranza nazionalista possono in ogni momento scatenare. Viviamo da molto tempo nella religione del tempo uniforme. L’eterna velocità onnipresente è già dietro di noi, nell’Internet, perciò ora possiamo dimenticarla per trovare il nostro ritmo singolare.
Cosa significa dopo futurismo? Come si colloca il tuo invito alla riscoperta del futuro in questo preciso momento storico, e quanto la coalizione che si sta formando intorno all’Altra Europa con Tsipras può essere un passo in avanti in questi termini secondo te?
No, l’altra Europa non c’entra niente con il dopo futurismo. La fine del futuro è iscritta nello svuotamento stesso della politica come arte scelta tra alternative. Ma più in generale la fine del futuro è legata all’esaurimento delle risorse sociali, ambientali, immaginative che il ventesimo secolo ha esaltato e poi dissipato. Dopo-futurismo significa scelta di una forma di vita che non dipenda più dall’illusione di una crescita futura possibile, e che ridefinisca il sistema delle aspettative in funzione a un equilibrio senza crescita.
Sempre in ‘Dopo il futuro. Dal futurismo al ciberpunk ‘ ti soffermi molto sul ruolo della rete e dei media in generale. Queste sono soprattutto macchine per la modellazione della soggettività collettiva, e considerando la forte leva di cui ne fa, in modo fortemente demagogico oggi la politica, quanto pensi siano ormai indispensabili nella gestione del potere costituito? Quale macchina può essere per te creazione e condivisione di saperi e strumento di emancipazione?
La tua domanda va troppo avanti per le mie capacità di immaginazione. Non lo so, non so quale sia la macchina che funzioni come creazione e condivisione di saperi e strumento di emancipazione. Questo è il tema dei prossimi cinquant’anni. Soltanto la pratica di autonomia e concatenazione dei lavoratori cognitivi potrà costituire il terreno sul quale il sapere smetta di essere funzione dello sfruttamento e diventi funzione del benessere collettivo.
A Taranto oggi, il problema determinante nei movimenti, forse, è proprio l’assenza di un immaginario futuro capace di tracciare traiettorie di emancipazione complessive e sistemiche. Quasi tutti, anche negli ambienti di movimento, attendono costantemente il messianico intervento della magistratura. In assenza di un’azione politica (istituzionale e non), è come se una enorme macchina (l’industria) abbia fagocitato e modellato definitivamente le soggettività sino a schiacciarle nella morsa della dicotomia salute-lavoro e zittirle a suon di decreti governativi. Quali sensazioni ti attraversano e che idea ti sei fatto riguardo tutta questa vicenda?
Ho seguito la vicenda di Taranto con un sentimento di angoscia e di impotenza. In un certo senso Taranto è la metafora del mondo contemporaneo. In nome dellla crescita, in nome dell’occupazione si è distrutto l’ambiente, si è rovinata la salute degli esseri umani, si è ridotta la città a un fantasma. Ho letto un giorno l’intervista di una donna di Taranto che diceva: meglio morire di cancro che di fame. Anche questa è una frase ad altissimo potenziale. Il capitalismo ha costretto gli esseri umani a rinunciare alla vita per poter sopravvivere. E questo, bada bene, proprio mentre le tecnologie rendevano possibile una riduzione del tempo di lavoro, lo sviluppo di forme di produzione non inquinanti. Ma solo a patto, naturalmente, di rinunciare al massimo profitto, solo a patto di mettere al primo posto il benessere collettivo e non la massimizzazione del profitto. Come riattivare l’immaginazione di futuro quando sappiamo benissimo che le emissioni di sostanze inquinanti, prima di tutto l’ossido di carbonio nel pianeta si depositano nell’arco di venti anni? Anche se oggi stesso smettessimo di diffondere nell’atmosfera veleno il veleno già diffuso continuerebbe a depositarsi nei polmoni delle prossime generazioni.
E sappiamo bene che le forze che detengono il potere economico non hanno nessuna intenzione di ridurre le emissioni, come hanno mostrato i vertici di Copenhagen e quello di Varsavia.
Non mi piace scrivere queste cose, perché preferirei dire in che direzione sta la strada della speranza. Ma penso che vendere speranze finte sia intellettualmente disonesto.
Il dopo futurismo è una sospensione della speranza.