Il 20 febbraio scorso il governo Renzi ha varato i decreti attuativi del Jobs Act. Ora la “Riforma del Lavoro” si riempie di contenuti e segna una rottura completa con la storia delle relazioni industriali dell’Italia repubblicana, cancellando decenni di lotte della lavoratrici e lavoratori. È una contro-rivoluzione: si mette al primo posto l’interesse dell’azienda, invece di “correggere” le storture nella normativa giuslavoristica. Rispetto agli spot propagandistici di Matteo Renzi, il Jobs Act non fa altro che generalizzare la precarietà e riportare il lavoro ad una condizione servile. Questa contro-riforma non creerà un solo posto di lavoro: essa rappresenta piuttosto un salto di qualità nella riduzione delle persone che lavorano a “merce” e nella distruzione dell’organizzazione collettiva delle lavoratrici e lavoratori. Ne abbiamo parlato con Marco Barbieri, professore ordinario di Diritto del Lavoro presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Foggia, già Assessore al Lavoro, Cooperazione e Formazione Professionale della Regione Puglia dal 2005 al 2009:
Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, ha affermato, che con il varo dei decreti attuativi, «nessuno verrà lasciato più solo», ma questa riforma, ha modificato in meglio o in peggio il mercato del lavoro?
Certamente in peggio, e di molto, per le ragioni che risulteranno dalle risposte alle altre domande.
Il contratto a tempo indeterminato, così come disposto dal testo normativo, «costituisce la forma comune di rapporto», ma cosa cambia con il contratto a tutele “crescenti”?
Cambia una cosa soltanto, per chi sarà assunto dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo: le persone licenziate illegittimamente avranno diritto soltanto a una indennità, salvo pochissimi casi. Il contratto a tutele crescenti non è un contratto, perché si tratta solo del normale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; e non è a tutele crescenti, perché l’unica cosa che cresce – poco e sino un massimo – è appunto l’indennità che prenderà il lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo; e nel frattempo decresce la tutela contro il licenziamenti ingiustificati rispetto a quello che c’è stato sino ad oggi.
In cosa differisce, dal contratto a tempo indeterminato, quello a termine (determinato)?
In realtà, l’effetto paradossale è che oggi i lavoratori con contratto a tempo determinato sono meno precari di quelli con contratto a tempo indeterminato. I primi non possono essere licenziati sino alla scadenza del termine, e dunque sanno esattamente sino a quando possono contare su un lavoro e su una retribuzione (anche se ovviamente sperano in una proroga o in un rinnovo del contratto, o addirittura in una assunzione “definitiva”); mentre chi lavora a tempo indeterminato – cioè ha ottenuto l’agognata assunzione “definitiva” – può essere licenziato in ogni momento a prezzi modici per il datore di lavoro, talché non sa fino a quando potrà contare su lavoro e retribuzione.
Renzi afferma che parole come «mutuo, ferie, diritti e buonuscita entrano nel vocabolario di una generazione che ne era stata esclusa», ma cosa cambia davvero sul versante dei precari?
Non saprei di cosa parli Renzi. In genere, mi occupo di norme, non di propaganda politica di destra.
A suo parere, vi è stato un reale riordino delle forme contrattuali di lavoro precarie? Oppure continueremo ad assistere alle assunzioni con i pagamenti in “voucher”?
Non si può dire affatto che vi sia stata una riduzione delle forme “ufficialmente” precarie di lavoro. Sono stati persino confermati il lavoro intermittente e lo staff leasing (somministrazione a tempo indeterminato), che il Governo Prodi (che però, a differenza del Governo Renzi, era di centro-sinistra) aveva abrogato; così come è confermata la liberalizzazione del contratto a termine già operata dal decreto Poletti: oggi il datore di lavoro può assumere a termine anche per esigenze non temporanee, quindi la convenienza ad assumere a termine o a tempo indeterminato è data unicamente dagli sgravi contributivi, tanto oggi anche il contratto a tempo indeterminato è precario. Per quanto riguarda il lavoro accessorio, quello pagato con i voucher, che è con il lavoro intermittente il grado massimo di riduzione dei diritti – l’intenzione dichiarata del Governo Renzi è al contrario quella di estenderne l’uso, e infatti il tetto massimo di reddito derivante da queste prestazioni è innalzato a 7.000 euro. Va segnalato che qui il decreto precisa che si può trattare anche di prestazioni di lavoro subordinato, che sono dunque apparentemente sottratte all’applicazione della disciplina di legge per i lavoratori subordinati: il che non mi pare legittimo costituzionalmente.
C’è un reale superamento dell’utilizzo di co.co.co e co.co.pro?
No. Il decreto abroga i co.co.pro., effettivamente (art. 49, co. 1). Riconduce alcune co.co.co. – equivocamente definite nell’art. 47, co. 1 come quelle – alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato: ma non tutte. Rimangono infatti escluse dall’applicazione della disciplina del lavoro subordinato le co.co.co. dell’art. 47, co. 2 (quelle previste dagli accordi interconfederali); quelle degli iscritti negli albi professionali; dei componenti di organi societari; degli sportivi); nonché in genere tutte le co.co.co. che non integrino i caratteri del contenuto ripetitivo e le cui modalità esecutive siano organizzate dal committente come dice l’art. 47, co. 1, come risulta chiaramente dall’art. 49, co. 2, che lascia salvo l’art. 409 c.p.c. Cioè siamo tornati al 1973, salvo che per i profili previdenziali, con co.co.co. completamente deregolamentate, senza neppure quel pochissimo di tutele che avevano i co.co.pro., salvo che per la definizione e la competenza del giudice del lavoro, ex art. 409 c.p.c. Dunque, è falso che abbia “rottamato” le co.co.co.
In cosa si differenzia dal precedente il nuovo contratto di “apprendistato”?
L’apprendistato probabilmente subirà la concorrenza del contratto a tempo indeterminato “a tutele crescenti”, con gli sgravi concessi dalla legge di stabilità, che peraltro occorrerà vedere se saranno confermati in futuro. Per il resto, la disciplina è grosso modo la stessa, salvo il significativo particolare che le ore di formazione praticamente non sono retribuite, come se fossero un regalo fatto dal datore all’apprendista anziché un investimento redditizio anche per il primo.
Possiamo dire addio al reintegro del lavoratore, in caso di licenziamento “ingiustificato”? Ci saranno più tutele per chi perde il posto di lavoro? In cosa consiste la conciliazione facoltativa incentivata”?
La reintegrazione ci sarà soltanto per i licenziamenti discriminatori o nulli perché contrari a disposizioni di legge, o per quelli intimati per inidoneità del lavoratore che invece non sussista; ma non per i licenziamenti ingiustificati. Per il licenziamento disciplinare, quello intimato per mancanze del lavoratore o della lavoratrice, la reintegrazione ci sarà soltanto se sarà “direttamente dimostrata in giudizio” – cioè, sembrerebbe, dal lavoratore – “l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”. Se prendiamo alla lettera quello che un legislatore sprovveduto e fazioso ha scritto, se dimostro che non è stata rubato nessun pacco di pasta dal supermercato, sarò reintegrato; ma se il furto c’è stato, e io dimostro che non è stato commesso da me, non si dovrebbe applicare la reintegrazione. Ugualmente, se mi viene contestato un fatto irrilevante – come un ritardo sul lavoro di due minuti – o addirittura che non costituisce un inadempimento contrattuale (non ho salutato in piazza il mio capoufficio), non dovrei avere diritto alla reintegrazione. In sede tecnica ho illustrato perché tutto questo costituisca una monumentale violazione della ragionevolezza, e dunque del principio di uguaglianza contenuto nell’art. 3 della Costituzione. In tutti gli altri casi, la tutela consiste in due mensilità per anno di anzianità del lavoratore o della lavoratrice ingiustamente licenziato/a, con un massimo di ventiquattro mensilità. Cioè perdo il posto ingiustamente, non mi viene risarcito tutto il danno, anzi al datore di lavoro, con gli sgravi contributivi, conviene licenziarmi dopo tre-quattro anni, perché comunque ci guadagna, anche se il licenziamento è giudicato illegittimo in Tribunale. Peraltro, le mensilità si dimezzano in caso di violazione delle procedure, e per piccole imprese diventano ancora meno di quelle che siano state sinora (una per anno con un massimo di sei). E la conciliazione incentivata vuol dire che il datore può scegliere di dare – in cambio dell’accettazione del licenziamento – una mensilità per anno con un massimo di diciotto, esentasse: come dire, mettiamo il datore al riparo pure dalle spese del processo, a spese della collettività. Perché infatti il lavoratore dovrebbe fare causa – il processo del lavoro non è più gratuito, grazie a una norma di Berlusconi, a parte le spese per l’avvocato – con il rischio di essere condannato alle spese, per ottenere (salvo i pochissimi casi di reintegrazione) al massimo quelle cifre che dicevo, se può ricavare più o meno lo stesso importo in conciliazione? Insomma, paghiamo una sorta di assicurazione per i datori che abusino del licenziamento.
Nonostante i pareri contrari delle commissioni parlamentari, la riforma ha intaccato anche i licenziamenti collettivi. Cosa cambia in caso di licenziamento per motivo economico?
Il punto è proprio cosa voglia dire “licenziamenti economici”. Se si ritiene – come penso io – che i cd. licenziamenti economici siano una parte dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo – cioè quella parte che non riguarda la persona del lavoratore, come invece è nel caso dell’inidoneità sopravvenuta alle mansioni o della carcerazione preventiva o del ritiro della patente o dell’autorizzazione necessaria al lavoro -, allora nella legge delega n. 183/2014 non c’è niente che abbia autorizzato il governo a modificare la disciplina dei licenziamenti collettivi, e quindi la nuova norma è incostituzionale. Se invece si ritenga che i “licenziamenti economici” di cui parla la legge delega comprendano anche i licenziamenti collettivi, la norma sarebbe legittima. Comunque, cambia una sola cosa: che il datore di lavoro il quale, nell’ambito di un licenziamento collettivo, non rispetti i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare fissati dalla legge o dai contratti collettivi, si limiterà a pagare una indennità, mentre i lavoratori illegittimamente licenziati perderanno ugualmente il lavoro, a meno che non dimostrino di essere vittime di una discriminazione. Peraltro, questo vorrà dire che il datore di lavoro preferirà sempre licenziare i più giovani, per i quali pagherà meno soldi; che non avrà molto senso cercare di concordare con un accordo sindacale i criteri, perché il datore sarà libero di violarli a prezzi modici; e che nello stesso licenziamento collettivo un lavoratore abusivamente scelto avrà diritto alla reintegrazione – se assunto prima del Jobs Act – e un altro perderà il posto e avrà diritto solo all’indennità, se assunto dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo: con ovvi dubbi di legittimità costituzionale in relazione al principio di uguaglianza.
L’art. 55 del decreto sui contratti sostituisce l’art. 2103 del c.c.: si tratta di una vera propria legittimazione del demansionamento? In cosa consistono gli «accordi individuali, in sede protetta»?
Le modifiche in tema di mansioni sono diverse. a) il lavoratore può essere adibito a mansioni equivalenti, ma ora l’equivalenza non è più data dalla professionalità, ma solo dal livello retributivo; b) il lavoratore può essere demansionato in caso di modifiche organizzative, che però sono decise dal datore, il quale è dunque libero di provvedere alle une per ottenere la facoltà di demansionare; c) basta il consenso di una qualunque organizzazione sindacale rappresentativa per introdurre il demansionamento anche senza modifiche organizzative. Non sarà difficile, sappiamo chi sono; d) la definitività dell’assegnazione a mansioni superiori viene condizionata alla volontà del lavoratore, possiamo immaginare quanto liberamente espressa; e) la definitività dell’assegnazione a mansioni superiori non avviene più dopo tre mesi o il periodo più breve stabilito dai contratti collettivi, ma dopo il periodo stabilito dai contratti collettivi anche aziendali stipulati da una qualunque organizzazione rappresentativa, come sopra. Potrebbe anche essere dopo dieci anni. In mancanza di contratti collettivi, avviene comunque dopo sei mesi, quindi con un raddoppio rispetto alla situazione attuale. La cosa più ridicola è proprio quella oggetto dell’ultima domanda: davanti al giudice, in conciliazione alla Direzione Provinciale del Lavoro o in sede sindacale o di Commissione di certificazione, sarà possibile stipulare accordi individuali di demansionamento senza conservazione dell’inquadramento e della retribuzione precedenti, «nell’interesse del lavoratore», che secondo il Governo consisterebbe nella «conservazione dell’occupazione», nella «acquisizione di una diversa professionalità», o nel «miglioramento delle condizioni di vita». Il primo caso è semplice, si tratta del solito ricatto occupazionale; il secondo è assurdo, perché il lavoratore acquisirebbe una professionalità nuova ma inferiore, onde proprio non può avervi interesse; ma il più bello è il terzo caso: il lavoratore acconsente – anche qui, è facile immaginare quanto liberamente – a un demansionamento con peggioramento di inquadramento e retribuzione per migliorare «le condizioni di vita»: insomma, meno vi pagano, meglio state. E non sarà difficile per i datori di lavoro trascinare i lavoratori davanti a un sindacalista compiacente e ottenere il consenso, come già accadeva specie per i lavoratori delle piccole imprese senza sindacato. Del resto, non è mancata una confederazione sindacale che ha apprezzato il decreto, pur muovendo qualche critica.
In arrivo, dal 1 Maggio 2015, i nuovi ammortizzatori sociali. Cosa sono Naspi, Asdi e Dis-Coll?
Innanzitutto preoccupa che non sia stato collegato questo decreto con quello che dovrebbe essere emanato in tema di cassa integrazione, che a sua volta, per quello che c’è scritto nella legge delega, fa temere una diminuzione della tutele. Naspi è una prestazione di disoccupazione, la revisione dell’Aspi introdotta dalle legge Fornero, non è universale, nella stime della Cgil è penalizzante per i lavoratori stagionali. Non è una tutela veramente universale contro la disoccupazione, fra l’altro perché per i collaboratori c’è la Dis-Coll, una prestazione distinta, differente per requisiti e durata. La Naspi dura per metà delle settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni, quindi massimo due anni; ma dal 2017 la durata massima sarà 78 settimane, cioè un anno e mezzo. Peraltro, la Naspi sarà decurtata nell’importo del tre per cento ogni mese dal quinto (dal 2016 dal quarto), così da ridursi progressivamente a importi davvero modesti: evidentemente, l’idea è che se non trovi lavoro è colpa tua; peraltro, vi è un tetto modesto per la contribuzione figurativa, con prevedibili effetti negativi sull’importo delle pensioni: un a novità negativa.La Dis-Coll per i co.co.co. E co.co.pro. privo di partita IVA prevede la stessa riduzione progressiva, non riconosce la contribuzione figurativa, e ha una durata limitata (metà dei mesi di contribuzione versati dall’anno precedente al momento della disoccupazione). L’Asdi è l’assegno di disoccupazione previsto per chi durante il periodo di durata della Naspi non abbia ritrovato lavoro e sia in stato di bisogno, ma per solo sei mesi e con importo massimo pari all’assegno sociale, cioè meno di 450 euro mensili. Una prestazione del tutto inadeguata, dunque.
Secondo lei quali possibili azioni possono essere messe in campo contro il Jobs Act?
Innanzitutto, c’è da svolgere un’azione di informazione. Mi raccontava un’amica avvocata che un lavoratore si è recato da lei per chiederle se gli convenisse dimettersi e farsi riassumere “a tutele crescenti”. Poi, occorrerà sollevare, nelle cause che non mancheranno quando questa roba andrà in vigore, le numerose questioni di costituzionalità che derivano da una legge così vistosamente squilibrata a vantaggio di una sola parte, e anche spesso tecnicamente approssimativa nella stesura. Infine, occorrerebbe pensare – a seconda degli orientamenti delle persone dopo la campagna di informazione – alla raccolta di firme per una referendum abrogativo: non dimentichiamo che due delle tre maggiori confederazioni sindacali hanno convocato uno sciopero generale contro il Jobs Act, e dunque non siamo nella stessa situazione del referendum per l’estensione dell’art. 18 del 2003, cui partecipò soltanto il 25,7% dell’elettorato. Soprattutto, occorrerebbe spiegare ai piccoli imprenditori che in realtà loro pagano per rendere liberi di licenziare ingiustificatamente i grandi, per i quali l’indennità misera in caso di licenziamento non è un deterrente.
Di quale riforma del lavoro, in realtà, il nostro paese ha bisogno?
Io credo che avrebbe bisogno innanzitutto di una politica industriale di incentivazione selettiva dell’innovazione di prodotto, e di un intervento pubblico in economia che investa nei settori strategici per l’Italia e a redditività differita, dove la ricerca del profitto privato a brevissimo termine non arriva. Poi avremmo bisogno di un forte aumento della spesa nell’istruzione e nella ricerca scientifica, perché questo migliorerebbe la produttività e la competitività anche delle nostre imprese, oltre a rendere più forti le persone che lavorano. Infine – ma solo infine – avremmo bisogno di una politica del lavoro che stronchi il lavoro nero, incentivi i contratti nazionali e contribuisca a innalzare i salari e il costo del lavoro, per spingere le nostre imprese a competere sull’innovazione e non sullo sfruttamento del lavoro, come sinora si è fatto. Se volete, quello che abbiamo provato a fare in Puglia, con i piccoli strumenti che ha una Regione, nella Giunta Vendola, almeno nel periodo dal 2005 al 2009 in cui ne ho fatto parte e del quale posso dunque parlare con maggiore cognizione.