Il Governo Renzi, con il Decreto Legge n. 34 del 20 Marzo 2014 (“Decreto Poletti” o cd.“Job act”), ha approvato la riforma del contratto del lavoro a termine e di apprendistato, che preclude per il futuro l’accesso ad un lavoro stabile a tutti i lavoratori giovani ed adulti, condannandoli ad un precariato a vita. Una scelta politica, quella di Matteo Renzi, in piena continuità con quelle dei precedenti governi, che conferma e realizza la volontà di rendere permanente la precarietà.
Nonostante il contratto a tempo indeterminato viene ancora proclamato “forma comune di rapporto”, il contratto a termine viene incentivato al massimo. Rispetto alla precedente riforma del mercato del lavoro firmata Fornero, si estende da uno a tre anni la proroga “acausale” del contratto a tempo determinato. Non si distingue più tra primo contratto a termine e contratti successivi tra le stesse parti, e non si richiede più nessuna causale “obiettiva” né per il primo contratto e neanche per le sue proroghe o rinnovi. Viene meno così “l’eccezionalità” del contratto a termine rispetto a quello a tempo indeterminato. In questo modo il contratto a termine si potrà fare per tutti, senza spiegare il perché e senza collegarlo ad una esigenza temporanea. Il contratto a termine potrà essere prorogato otto volte, con l’unico limite di non superare nel complesso, i 36 mesi di utilizzo a termine dello stesso lavoratore, per non far scattare una trasformazione a tempo indeterminato. Un limite che già esisteva precedentemente e che resta, ma che ha sempre fatto più male che bene ai precari, perché i datori di lavoro sono sempre stati molto a attenti a non superare quella soglia temporanea.
A questo si aggiunge un tetto massimo di lavoratori da assumere con contratto a termine, fissato nella percentuale del 20% sul complesso di lavoratori occupati in azienda. Anche questo rappresenta un favor per il padronato, perché alza la soglia del 10-15 %, già prevista dai contratti collettivi – per altro non è mai stata rispettata, anche perché la P.A e i Centri per l’Impiego tengono riservati o nascondono i dati numerici relativi. Se consideriamo poi che nel tessuto produttivo italiano le imprese con meno di 10 dipendenti costituiscono il 95% del totale (dati Istat) è facile presumere che il contratto a tempo determinato verrà utilizzato dalla stragrande maggioranza delle imprese italiane. Occorrerebbe istituire presso i Centri per l’Impiego una anagrafe pubblica dei rapporti di lavoro per ottenere l’indispensabile trasparenza.
La domanda che potremmo farci è: perché viene consentito ai datori di lavoro di assumere a termine, anche se l’esigenza lavorativa da coprire è ordinaria e permanente? Il Ministro Poletti, difendendo la riforma dei contratti, dice che se una persona è brava, potrà essere messa alla prova, e dopo avrà il suo contratto stabile. Tuttavia, nel contratto di lavoro a tempo indeterminato il periodo di prova esiste, così come in quelli a termine regolari. La verità è invece un’altra. Con il contratto a termine il lavoratore vive e lavora sotto il ricatto permanente della mancata proroga e dunque non potrà mai alzare la testa o rivendicare alcun diritto.
Vi è da aggiungere che, dal punto di vista giuridico, il decreto è sicuramente illegittimo, perchè contrastante con la normativa europea sui contratti a termine (direttiva 1999/70/CE), recepita in Italia con il dlgs 368/01, che ora questo decreto ha stravolto e devastato. La direttiva europea richiede infatti ragioni “obiettive” di carattere “tecnico, organizzativo e produttivo” per la stipula di un contratto a termine, o almeno per le sue proroghe o rinnovi, ed impedisce peggioramenti della disciplina della stessa direttiva. Accanto ai contrasti nei confronti con la normativa europea, emergono anche evidenti motivi di incostituzionalità, per violazione degli artt. 2 e 4 della Costituzione, che tutelano i diritti fondamentali dei lavoratori, ed anche per la “irragionevolezza” che questo decreto induce nel sistema dei rapporti di lavoro. Ove restasse, questa disciplina potrebbe essere impugnata in ogni sede giudiziaria, dalla Corte di Giustizia Europea alla nostra Corte Costituzionale, ma anche di fronte ai Giudici del Lavoro, i quali dovrebbero disapplicare le nuove norme perché contrarie al dettato europeo.
Altro punto critico del decreto riguarda il contratto di apprendistato. Le modifiche apportate liberalizzano di fatto questa figura contrattuale, svincolandola dalla sua funzione formativa – e dunque dal suo scopo originario – e tramutandola in un contratto sottopagato e sfruttato. Nel testo approvato si legge infatti che per formalizzare il rapporto di lavoro basterà solo mettere per iscritto il contratto, il patto di prova, e non anche la formazione. L’esigenza paventata dal Governo è quella di semplificare il contratto di apprendistato, ma in questo modo si procede allo sfaldamento della formazione come input di inserimento nel mondo del lavoro. Inoltre il Governo impone un salario d’ingresso per l’apprendista del 35% (sino a ieri dell’85%) delle ore effettivamente lavorate e di quelle svolte in formazione, indipendentemente dalla mansione svolta e dal settore industriale in cui è occupato il lavoratore apprendista. Si affida alla contrattazione collettiva la definizione della base su cui tale 35% sarà calcolato, con il rischio di rendere il contratto di apprendistato una gabbia salariale e una ulteriore forma precarizzante. Viene anche eliminata quella elementare regola anti-frode per la quale non potevano essere conclusi nuovi contratti di apprendistato dal datore di lavoro che non avesse confermato a tempo indeterminato i precedenti apprendisti.
In un paese dove la disoccupazione è al 13% e quella giovanile ha raggiunto il 42,3% (dati Istat), con una situazione ancor più grave nel sud Italia – dove un giovane su due non ha un lavoro e molti hanno smesso di cercalo – il governo pone una pietra tombale sull’avvenire di un’intera generazione. Il decreto Poletti esaspera la precarizzazione del lavoro, ma non garantisce l’incremento dell’occupazione. Quest’ultima può avvenire solo tramite un aumento della domanda aggregata, quindi della spesa pubblica o privata, che sproni e incentivi le imprese a investire e quindi a creare occupazione. Ma con il crollo dei livelli salariali determinato da condizioni sempre meno favorevoli per i lavoratori una tale prospettiva è fuori dal mondo. Il lavoro non si promuove introducendo forme contrattuali precarie, ma facendo politiche industriali, investendo in ricerca ed innovazione, vincolando i soldi pubblici alla creazione di nuova occupazione netta.