Partiamo da un presupposto: questo articolo spoilera qualcosa che definire film è riduttivo: più corretto dire che è un’opera d’arte immensa. Un esempio di cinema da cui sarà difficile prescindere nei secoli. Dove la settima arte si fonde con tutte le altre. Dove i dettagli non sono manie di perfezionismo fini a sé stesse, ma calcolate varianti che insieme compongono una delle più enigmatiche espressioni dell’essere umano.
Parlare di 2001 è un esercizio tra i più difficili. Assistervi è un’esperienza. I significati che emergono – sempre tra i mille dubbi e la meraviglia – sono diversi non solo da persona a persona ma anche ad ogni nuova visione. Tutto questo per dire che quello scrivo ora potrei tranquillamente abiurarlo tra qualche mese, stracciarlo in mille pezzetti se scrivessi su carta. Prendete con le pinze queste parole. Se non l’avete visto consiglio vivamente di ignorare questo articolo: la prima volta è necessario farsi assorbire senza alcuna mediazione.
Non mi dilungherò nei dettagli, con commenti che potreste trovare in qualunque manuale di cinema. Né mi permetterò di compiere un attenta disamina sui dettagli dell’opera, esercizio per il quale servirebbero molte più pagine (e moltissime ne sono state già scritte).
Mi limiterò a tracciare i tratti di una suggestione.
Definire 2001 come semplice espressione del conflitto tra natura e cultura, natura e uomo, significa banalizzare la complessità di un’opera che gioca a tutto tondo.
Il conflitto in senso marxiano è il filo conduttore dell’opera ed emerge in molteplici forme: il conflitto tra il primate prima e l’uomo dopo con il monolito – monolito che assume dunque valori e valorizzazioni differenti lungo tutta la narrazione -, il conflitto tra primati, il conflitto tra uomini, quello tra l’uomo e la macchina e quello dell’uomo con sé stesso e con il tutto. Dal particolare all’universale, e viceversa, in una continua evoluzione.
Cosa è il monolito?
La domanda delle domande. Difficile dirlo, forse impossibile, nonostante le diverse risposte plausibili. Una cosa è certa però, l’avvento del monolito produce la violazione della norma per l’uomo che ancora non è uomo, il primate. Inizia la narrazione, inizia la storia dell’uomo. La violazione della norma produce sforzo cognitivo, che significa produrre domande, quindi articola il linguaggio e produce inevitabilmente il conflitto. Il conflitto produce la storia, come dice Marx, e Kubrik vuole sottolinearlo, senza dimenticare che ci sono sempre cause storiche e sociali a renderlo necessario. Il primate necessitava di cibo (e anche di autodifesa, come emerge più chiaramente – ma senza la stessa magia – nel didascalico romanzo scritto di pari passo alla realizzazione del film, ma messo in commercio ben sei mesi dopo l’uscita nelle sale) e i conflitti che seguono l’incontro col monolito non sono che consequenziali. Inizia la storia dell’uomo.
Inizia da lì la costruzione delle catene che tengono legate l’umanità.
In questo caso la fotografia aiuta a fissare il concetto: si passa dagli spazi aperti e desolati della terra di milioni di anni fa, al chiuso e articolato sistema della SSI, fino alla monotona e angusta navicella Discovery One. Più si va avanti, più le catene si stringono.
L’umanità, le sue catene e il progresso
Intrappolata in queste catene, l’umanità è macchina avulsa. Procede in unica direzione, senza possibilità di deviazioni o incertezze, lungo la via del Progresso ad ogni costo, narcotizzando i conflitti. Non si interroga più e perde la sua essenza critica, e quindi la capacità di produrre storia. È assuefatto alla bontà e alla neutralità apparente di forme e contenuti. Sembra ricalcare quasi il pensiero del neoliberista Fukuyama. L’economista americano in un saggio del 1994 teorizzava la fine della storia e dei conflitti socioculturali nel mondo con l’avvento delle democrazie liberali come forma di governo.
Anche la critica all’ideologia borghese è forte: il bon ton esemplare dello scienziato americano Heywood Floyd, tutto sorriso e strette di mano con i russi a cui nel frattempo mente spudoratamente; le abbondanti parole di cortesia tra gli americani sulla base lunare; la convenzione della celebrazione del compleanno.
David Bowman e Frank Poole, invece, sono sull’astronave a migliaia di chilometri dalla Terra e tirano dritto verso Giove.
La Discovery One è però un ambiente asettico, candido, dove l’uomo vive da criceto. Svolgono lavori monotoni, alienanti, sotto la guida egemone di Hal, l’intelligenza artificiale che controlla la navicella.
Hal, che ammette solo errori umani, tuttavia cade in un errore logico. Lui e il suo “gemello” sulla terra elaborano calcoli differenti rispetto a un problema sul sistema di comunicazione della navicella. Alla domanda “credi che un calcolatore della serie Hal possa sbagliare?” lui risponde con un secco no. Da qui l’errore logico: se lui non è in errore lo è il suo gemello e viceversa. L’uomo colpevole sempre e comunque, un ritornello che si sente dalla vendita di indulgenze fino ai giorni nostri. Emerge da parte di Hal la presunzione avere la verità. Alla prospettiva della sua disattivazione, Hal risponde con la violenza..
Dal conflitto, a cui non ci si può più sottrarre, la rivoluzione: Bowman si rende conto di aver viaggiato senza neanche conoscerne il motivo, disattiva Hal e riesce quindi a compiere un’opera di falsificazione della verità dell’elaboratore, con un’azione di letterale de-costruzione del suo sistema di memoria.
La cultura e l’immaginario
Qui la chiave, una straordinaria allegoria su quello che dovrebbe fare l’uomo per svincolarsi dalle proprie catene: scardinare l’immaginario.
Bowman diventa così un personaggio collettivo. È l’umanità appesa a un filo nell’infinito dell’universo, con le sue catene e il terrore della solitudine. A quel punto la scelta quasi obbligata dopo il conflitto finalmente ritrovato: arrivati a quel punto, tornare indietro non si può, non si deve.
Armatosi di coraggio e stupore e spogliato da schemi e dispositivi (in senso squisitamente foucaultiano), Bowman e con lui l’umanità può diventare altro da sé. L’ultimo capitolo infatti è intitolato “Beyond the infinite”, oltre l’infinito.
Bisogna andare oltre l’immaginario.
Dopo il naturale shock (fisico e culturale) a cui l’umanità è sottoposta, con la celebre sequenza psichedelica che funge da splendida allegoria, con i suoi nuovi occhi, può finalmente guardare con più distacco la concezione di esistenza. Può tornare a interrogarsi sulla diversa valorizzazione che quest’ultima assume se rapportata all’infinito del tempo e dello spazio invece che alle banalizzazioni delle forme e dei contenuti dell’ideologia liberal/borghese che dal 1968, pur con le sue evoluzioni e la mutevolezza delle sue forme, ha egemonizzato l’immaginario e sussunto l’immaginazione.
Per sussunzione si intende la subordinazione di un termine all’interno di un sistema. Quello che il sistema neoliberista sta compiendo a livello cognitivo con la narcotizzazione della collettiva capacità di immaginare altro, forse Kubrik l’aveva capito già nel 1968.
L’umanità non torna umana, come si può essere portati a pensare. Nessun eterno ritorno auspicato, questa volta, nessun ritorno a una naturalità che non esiste, sin dal momento in cui l’uomo ha iniziato a scrivere la sua storia.
È l’umanità che assume nuova consapevolezza e inizia a camminare domandando.