“E l’Asia par che dorma, e sta sospesa in aria l’antica millenaria sua cultura”. I versi di Francesco Guccini riflettevano un’immagine dell’Asia – e della Cina, in particolare – a tal punto radicata nella cultura europea da resistere persino agli sconvolgimenti della Rivoluzione Culturale – la canzone da cui sono tratti, “Asia”, è del 1970. Oggi quello stereotipo non è più applicabile a una realtà in rapido (confuso) mutamento. Le trasformazioni sociali, culturali e persino antropologiche che la Cina sta maturando sono il tema del nuovo libro di Francesco Sisci, “La Cina cambia” (goWare, 2015). Nato e cresciuto a Taranto, Sisci è stato il primo “occidentale” ad essere ammesso all’Accademia Cinese di Scienze Sociali; oggi vive a Pechino, dove lavora come corrispondente per alcune importanti testate. Con lui abbiamo approfondito alcuni aspetti della “grande trasformazione” cinese, assieme ai rischi e alle opportunità che ne derivano per l’Europa. Con uno sguardo particolare alla clamorosa occasione mancata da Taranto per lo sviluppo del porto.
Le politiche demografiche realizzate negli ultimi trent’anni dal governo cinese – segnatamente, la cosiddetta “politica del figlio unico” – hanno provocato delle profonde trasformazioni sociali. Lei nel suo libro parla dell’emersione di una generazione di “piccoli imperatori”, su cui la famiglia concentra le sue attenzioni, ma anche le sue aspettative – che si trasformano in pressioni psicologiche. Quanto hanno inciso tali trasformazioni sullo sviluppo economico del paese? Per essere più precisi: le pressioni subite dai figli hanno prodotto nella società cinese un aumento della competizione tale da alimentare la dinamica delle attività economiche?
E’ una domanda a cui è difficile rispondere in maniera precisa. L’aumento della competitività nella società cinese in realtà viene da prima, ed è indipendente dalla politica del figlio unico. Questa è stata adottata anzitutto per limitare la pressione sulle risorse. Oggi i cinesi sono 1,4 miliardi; senza politica del figlio unico sarebbero stati forse 1,8/1,9 miliardi. Si sono tolte 400/500 milioni di persone alla Cina e al pianeta – e le risorse che avrebbero dovuto alimentarle sono potute andare allo sviluppo. D’altra parte, gli effetti sociali di quella politica li vedremo nei prossimi anni: essa è stata adottata nel 1980, per cui la “generazione del figlio unico” è entrata da poco nel mercato del lavoro. Dovremo attendere almeno una decina di anni prima che quella generazione rappresenti almeno la metà della forza lavoro.
Quel che è certo è che quella politica ha determinato un cambiamento culturale, sociale, antropologico fortissimo. La famiglia tradizionale cinese, fino al 1949, era composta da un capofamiglia, da diverse mogli e da decine di figli. Certo, non tutti potevano permettersi diverse mogli, ma quello era l’obiettivo del cinese medio – e comunque anche le famiglie più povere avevano molti figli. Questo nucleo, già di per sé complicato, si intrecciava poi con linee di parentela laterali (cugini, parenti di seconda generazione ecc.). Avere tanti figli per una famiglia significava poter contare su tante possibilità di successo. Tutto questo è finito agli inizi degli anni ’50, e poi nel 1980 in maniera radicale. E tale passaggio ha provocato una cesura profondissima con la cultura del passato. Anche perché, in un paese che non aveva una religione teistica come la nostra, i figli erano la proiezione del passato nel futuro, la giustificazione del culto degli antenati. Mancando i figli, cioè il futuro, è venuto quindi a mancare anche il passato. E la gente oggi galleggia in un mondo in cui il passato lo si può leggere sui libri, ma manca con esso una relazione personale. E’ come se la Cina si fosse persa un pezzo del passato, e quindi anche del futuro.
Lei affronta diffusamente il tema delle trasformazioni culturali, dal linguaggio agli abiti, argomentando che negli ultimi decenni – almeno dalla rivoluzione comunista in poi – in Cina è cambiato tutto rispetto ai tre millenni precedenti. Nelle conclusioni tuttavia afferma che l’“occidentalizzazione” della società cinese è pur sempre mediata dai valori profondi di quella civiltà. In definitiva, che identità esprime il Cinese contemporaneo?
Il cinese di oggi non è più il cinese del passato, ma non è neanche un occidentale. In generale, non ha un’identità precisa. Prendiamo gli abiti. Oggi nei paesi occidentali sappiamo che un uomo in certe occasioni indosserà la giacca e la cravatta e non, per esempio, il kilt. In Cina non si può escludere niente. L’altro giorno sono andato a un concerto per il quale si consigliava il “black tie”, cioè quello che noi chiamiamo lo “smoking”. Ma nel pubblico c’erano solo quattro/cinque persone vestite così. La maggior parte dei presenti era vestita nella maniera più varia; lo stesso padrone di casa non indossava lo smoking. Questo è un caso abbastanza significativo. E’ senz’altro presente nella società cinese una tensione a imitare i modi occidentali (in quella circostanza, la raccomandazione del “black tight”), ma la maggior parte della gente non ha idea di cosa siano. D’altra parte, non esiste un’alternativa chiara. In realtà, in Cina non c’è una “moda”. E’ una situazione in cui la tradizione non c’è più, ma non c’è nemmeno l’Occidente: c’è un’evoluzione continua. Verso cosa, ancora non lo sappiamo.
Nel suo libro cita l’opera di uno dei più influenti filosofi cinesi contemporanei, Zhao Tingyang. Zhao ha recuperato il nucleo dell’ideologia tradizionale dell’Impero cinese – il concetto di “Tian-xia”, in italiano “tutta la terra sotto il cielo” – ponendolo alla base di un nuovo ordine politico mondiale, autenticamente globale. Questa idea è presente nelle linee seguite dalla dirigenza cinese in politica internazionale?
L’opera di Zhao è molto influente, ma non è la linea politica ufficiale. La sua è un’idea importante perché traduce il concetto di “globalizzazione” secondo gli schemi della tradizione cinese. E’ un’operazione di rilettura simile a quella che fecero i Cristiani alessandrini quando tradussero in greco i Vangeli, filtrando la cultura ebraica attraverso le categorie del pensiero greco.
Invece la politica internazionale seguita dalla dirigenza cinese qual è, e a cosa punta?
Anche quella è in piena evoluzione. Negli ultimi anni, sempre più chiaramente, i cinesi si sono resi conto che non possono più pensare solo a se stessi, ma devono iniziare a pensare anche al mondo. E devono allineare gli interessi della Cina con quelli del mondo. Sotto questo aspetto, negli scorsi giorni lo stesso Xi Jinping ha annunciato un pacchetto di aiuti da 60 miliardi di dollari ai paesi africani. Vedremo in che modo si tradurrà, ma in ogni caso è un segnale della nuova sensibilità mostrata dalla dirigenza politica cinese.
Dopo essere stata autosufficiente per quasi tre millenni, fino al XIX secolo, e aver poi mantenuto una posizione defilata almeno fino agli anni ’70 del secolo scorso, la Cina è diventata oggi una grande potenza economica globale. Da qualche anno i massimi dirigenti politici cinesi prospettano piani strategici per connettere il paese al resto del mondo: su tutti, la cosiddetta “vie della seta”. Quali ragioni animano questa strategia?
In realtà la via della seta esiste da secoli. Solo che, dopo la conquista di Costantinopoli e del Mediterraneo orientale, gli italiani hanno iniziato a progettare di arrivare in Oriente viaggiando verso occidente. Con la scoperta dell’America, la via per le Indie iniziò a passare quindi per l’Oceano Atlantico. Così, nel Seicento, le potenze mediterranee erano morenti, mentre quelle atlantiche si proiettavano sul mondo. La Storia è iniziata a cambiare con l’indebolimento dell’Impero Ottomano, nel Settecento. Gli Inglesi entrarono nel Mediterraneo, e ripristinarono i rapporti fra questo e l’India. In questo quadro, tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, Napoleone decise di valorizzare Taranto in quanto avamposto per contrastare il dominio britannico sul Mediterraneo. Cominciò così a riemergere l’antica via della seta, che però divenne subito terreno di battaglia fra le diverse potenze.
Oggi i cinesi puntano a ripristinare quel canale di traffico anche perché non vogliono rimanere imbottigliati sulle sole vie marittime. Stanno cercando di creare grandi collegamenti che attraversino la Russia, l’Asia Centrale e il Medio Oriente. Ci riusciranno? Questo ancora non è chiaro. Però è una cosa di cui l’economia cinese ha bisogno. Oggi infatti il 70/80% del prodotto interno lordo cinese si produce lungo la costa, in un’area che corrisponde a un quarto, al massimo un quinto, dell’intera superficie nazionale. E’ necessario bilanciare questa tendenza espandendo anche l’interno e le aree occidentali del paese, anche per evitare un’eccessiva pressione demografica ed ambientale sulle parti già sviluppate. Questo è quello che anima la strategia di lungo termine della Cina.
In queste settimane nei paesi dell’Unione Europea si discute del possibile riconoscimento alla Cina dello status di “economia di mercato” nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), che comporterebbe il venir meno di numerosi dazi sulle importazioni da quel paese. In Italia alcuni settori si mostrano esplicitamente contrari, temendo pesanti ripercussioni sul nostro sistema produttivo. Una maggiore integrazione commerciale con la Cina è un rischio o un’opportunità per il nostro paese?
I rapporti commerciali con la Cina sono in generale un fatto positivo, date le possibilità offerte dal mercato cinese. Oggi la Germania ha una posizione di dominio sull’economia europea anche grazie a una politica ormai trentennale di integrazione con la Cina. Circa la metà del commercio europeo con la Cina è fatto dalla Germania. Oggi gli inglesi stanno cercando di raggiungere i tedeschi: hanno aperto le porte a Xi Jinping, il quale ha promosso 20/30 miliardi di investimenti in Gran Bretagna. Noi italiani siamo più intelligenti dei tedeschi e degli inglesi?
Restiamo sullo stesso piano delle opportunità/rischi, ma restringiamo il campo al nostro livello locale. La via della seta marittima dovrebbe fare scalo nel Pireo e nell’Adriatico settentrionale; il porto di Taranto è tagliato fuori da questo canale di comunicazione o c’è modo di farcelo rientrare? E, se sì, in che modo?
Nel caso del Pireo, si sta procedendo molto seriamente; ma il problema di quel porto è che, alle spalle, non ci sono collegamenti infrastrutturali adeguati – anche per via delle caratteristiche fisiche del territorio retrostante, e della situazione di instabilità in cui ancora si trovano i Balcani. Su Venezia c’è l’idea di fare un porto praticamente di fronte al porto esistente, off shore. Ma c’è un progetto? Per come stanno le cose oggi, è molto difficile che un’opzione del genere possa essere finanziata dall’Unione Europea.
Per quanto riguarda Taranto invece è finita. La storia del porto d’altra parte è folle: come sappiamo, due grandi gruppi imprenditoriali, Evergreen e Hutchison Whampoa (fra l’altro rispettivamente di Taiwan e di Hong Kong, non di Pechino), volevano fare grandi investimenti per trasformare Taranto nella Rotterdam del Sud Europa. E la potenzialità era tanto vera che quelli di Rotterdam erano venuti a Taranto chiedendo di partecipare al progetto: loro avrebbero dovuto fornire il know how per trasformare lo scalo ionico in un grande porto commerciale. Nulla di tutto questo però si è fatto. E oggi non c’è più modo di fare niente. Taranto è come un malato che ha rifiutato di assumere le medicine quando sarebbe stato necessario, ed oggi versa in una condizione disperata. Di chi siano le responsabilità è ancora tutto da chiarire. Come si sa, in Italia le vittorie hanno mille padri, mentre le sconfitte sono orfane.