Fu Dino Buzzati, in un documentario del 1964 dedicato al mondo dell’acciaio, a coniare il termine che da il titolo all’ultimo film di Davide Ferrario, presentato alla Mostra di Venezia 2014: La zuppa del Demonio, ovvero quell’ammasso ribollente e magmatico di materiali colati nell’altoforno per ottenere la lega più ambita, quell’acciaio oggi al centro delle vicende che riguardano Taranto, simbolo e residuo della “cultura industriale” italiana, così centrale nelle speranze e nelle rinascite tecnologiche del XX secolo.
A quei sogni e a quelle utopie, Ferrario dedica la sua ricerca, attraverso un impressionante lavoro di documentazione che parte dai materiali conservati nell’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa di Ivrea (ex patria della Olivetti) e favorisce così un viaggio in sei decenni di industrializzazione, dai primi anni Dieci fino ai Settanta in cui entra platealmente in crisi il modello, aprendo la porta allo sfacelo della scena contemporanea. L’obiettivo è raccontare quel “periodo di mezzo” e le sue contraddizioni: per capire cosa ha generato il presente, certo, ma anche e soprattutto per aprire uno spiraglio sul coacervo di emozioni che guidavano quei pionieri, al netto delle più ovvie considerazioni figlie della consapevolezza del dopo. Oggi tutti siamo al corrente degli sbagli fatti, delle spregiudicatezze di un agire incentrato al benessere del breve periodo e che ha portato disagi di cui ci si vuole giustamente liberare. Ma come era vissuta l’industrializzazione nel suo farsi?
La scelta di Ferrario appare a questo punto congrua: restano fuori considerazioni e valutazioni dell’oggi e tutto è mostrato mettendo a confronto i documentari d’epoca, con le voci di intellettuali, scrittori e saggisti che commentano o, alla bisogna, forniscono un efficace controcanto alle immagini. L’esperimento ha una finalità molteplice: da un lato raccontare cos’era l’industria al tempo del suo “splendore”, dall’altro ribadire il rapporto a doppio filo che la stessa intratteneva con il Cinema. D’altronde a girare molti di quei lavori c’erano registi come Ermanno Olmi o Alessandro Blasetti. E non è forse L’uscita degli operai dalle fabbriche Lumière il primo film della storia della Settima Arte? Un imprinting che fin dalle origini sancisce un legame particolare: il Cinema usa l’industria per darsi forma, ma allo stesso tempo ne è usato per ribadire una narrazione che è palingenesi, creazione di un nuovo movimento nella Storia dell’uomo.
L’idea del Movimento apre il fronte della narrazione alle derive più ambiziose dell’industrializzazione tutta: si parte infatti dalle affermazioni apodittiche dei futuristi alla Filippo Tommaso Marinetti, che esalta l’indiscutibilità del progresso (“Guardatevi dall’intentare dei processi al Progresso. Sia pure impostore, perfido, assassino, ladro, incendiario, il Progresso ha sempre ragione”). Ne consegue che il racconto della nascita delle grandi fabbriche è per prima cosa il farsi di un’epica (e di un’epoca), che si celebra in modo propagandistico e autoreferenziale, senza ammettere cesure fra un prima e un dopo: le immagini delle prime opere inaugurate dal Fascismo – viene mostrato ad esempio lo stabilimento di Mirafiori – si fondono con quelle del Boom economico di trent’anni dopo, in un fasto che però è attento a mantenere via via un volto umano. Tanto è disumana nel suo sfarzo l’opera in metallo, vetro e cemento, altrettanto emerge il lavoro manuale e il genio dell’intelletto di chi materialmente permette al colosso di ergersi.
Di qui la natura duplice che il film a ogni svolta dimostra di privilegiare, attraverso un meccanismo oliato che però lascia serpeggiare sottotraccia mille complessità destinate infine a risaltare come contraddizioni. Uno dei primi e più interessanti aspetti del documentario è quindi la sua capacità di esprimere – per usare le parole del già citato Olmi – l’identità operaia intesa come il senso di “appartenere a un’entità umana che produce una trasformazione storica”. Ecco dunque il sogno, la fiducia, l’utopia di un mondo che appaga il senso di appartenenza del singolo trasfigurandolo nel benessere della comunità tutta, che si riconosce nella fabbrica e in quel progresso “che ha sempre ragione”.
Le questioni ambientali e paesaggistiche sono note a pie’ di pagina di un approccio al mondo che vede la supremazia della macchina come estensione del saper fare degli uomini e che, per questo, produce un’estetica, considerata quasi un’arte: “L’ingegneria si è unita al paesaggio: è diventata architettura” sono le parole di Franco Fortini che meglio esprimono questo pensiero. Ancora più radicali ci appaiono invece le considerazioni di Dino Buzzati nell’esprimere la trasformazione che la cultura agricola meridionale (di Taranto nello specifico) affronta con l’approdo dell’acciaieria:
“Questa cittadella, nuova per il Sud, è come una strepitosa iniezione di sangue, come un’esplosione di forza: là dove tutto ristagnava da secoli, come una strepitosa carica di vita calata improvvisamente fra gli ulivi, fra gli antichissimi, sonnolenti ulivi, e subito intorno si propaga una scossa, un fremito, un risveglio. Sì, il lavoro, i soldi, il mangiare meglio, perché vergognarsi? Non vogliamo dire “la felicità”, ci mancherebbe altro. Però…”
Eppure, quel “Demonio” così profetico è come un cuore oscuro che pulsa sottotraccia, quasi ad aprire delle crepe in un tessuto così lucidamente inattaccabile: è quello che contrappone la vivibilità degli stabilimenti Olivetti alla Milano che “È solo una gran macchina caotica”; ma più ancora è quella naturalezza con cui viene sottolineata l’alterità delle Grandi Opere, per cui si sprecano termini come “Demonio”, appunto, o “Mostro”, quasi a ribadire come la fascinazione per la forza del progresso non possa disgiungersi da un certo timore panico per ciò che sotto sotto resta una forzatura, un’alterazione della normalità.
Cionondimeno, il Progresso continua per la sua strada, lungo un percorso che attraversa letteralmente lo stivale: Torino, Ivrea, Marghera, Brindisi, Taranto e Gela sono le realtà di volta in volta passate in rassegna, ciascuna con il proprio momento al sole, in un modello che a tratti sembra anche attecchire altrove, quando vediamo la Fiat vendere le proprie auto anche nell’Unione Sovietica. I turbolenti Settanta della crisi si aprono quindi nel segno di questo dualismo: da un lato scelleratezza, dall’altro entusiasmo proiettato ancora verso la fiducia totale nel metallo. Arriviamo così a uno dei pezzi più straordinari del documentario, l’incredibile Operazione Macchine per i pesci (o più pomposamente “Ricostituzione artificiale habitat fauna marina”), in cui una serie di carcasse di vecchie automobili vengono sfarzosamente scaricate nelle acque al largo di Varazze, in Liguria, in una sorta di oscena parodia dei riti pagani della fertilità. Difficile capire come si potesse credere in un simile rituale, animato dalla convinzione che sul fondo del mare quegli scheletri metallici potessero trovare una nuova utilità, un nuovo equilibrio, continuando, anche da “morti” quella opera di ridisegnare il mondo già enunciata in precedenza.
La prospettiva è dunque più che storica, perché ci fa capire come il Progresso avesse vinto la sua battaglia sul piano culturale, oscurando ogni possibile contromisura. Il fallimento era perciò inevitabile. Il dualismo dello sguardo di Ferrario, perciò, si palesa e produce sensazioni contrastanti: emerge una critica netta (e giusta) a un modello velleitario, ma allo stesso tempo resta anche una certa malinconia per delle speranze autentiche, destinate a essere piegate dallo scontro con la realtà. Condanna per gli stabilimenti-mostri e chi li ha voluti, ma comprensione (umanissima) per gli uomini che pure li hanno eretti.
La chiusa, non casuale, è per le parole elegiache di Giorgio Bocca, per il quale “Ci lasciammo trascinare dalle speranze? Probabilmente sì. Probabilmente la nostra infatuazione fu ingenua, ma quel periodo fu veramente particolare… felice”. Il Demonio, si sa, spesso costruisce sulle buone intenzioni e la sua zuppa finisce inevitabilmente per unire la rabbia di chi è arrivato dopo, con l’amarezza di chi è stato protagonista e solo alla fine ha compreso i propri errori.