È dedicato all’Ilva il secondo reportage in vista della manifestazione della Cgil di sabato 25 ottobre sulle condizioni di lavoro nella provincia di Taranto e il rapporto fra sindacato e lavoratori.
Martedì scorso la Fiom di Taranto ha scioperato ed è scesa in piazza contro il Jobs Act. Un punto di non ritorno per i diritti dei lavoratori nel nostro paese. Ma l’avversione dei metalmeccanici nei confronti della riforma del lavoro targata Renzi, a Taranto si somma alla preoccupazione per il destino dell’Ilva, sempre più cupo. In una piazza Maria Immacolata a dire il vero piuttosto spoglia, a parlare per primo è stato Francesco Brigati. Entrato in fabbrica poco più che ventenne, Francesco, come tutti gli operai della sua generazione, è passato attraverso i due anni di formazione lavoro per essere poi confermato a tempo indeterminato. «Ti facevano capire chiaramente – ricorda – che era meglio se non ti iscrivevi al sindacato e non scioperavi, altrimenti non ti avrebbero rinnovato il contratto. In questo modo Riva ha costruito una classe operaia funzionale ai suoi interessi. Anzi, forse è meglio dire che ha costruito operai funzionali ai suoi interessi, perché proprio la classe è stata sacrificata in quel processo».
Alle ultime elezioni per la rappresentanza sindacale unitaria in Ilva, Francesco è stato il primo degli eletti nella lista della Fiom con128 voti. «Per il movimento operaio questo è un momento quanto mai difficile», rileva. «Con il Jobs Act non c’è in ballo solo la cancellazione della reintegra sul posto di lavoro per giustificato motivo o giusta causa (l’articolo 18), ma anche la possibilità di svolgere attività sindacale in fabbrica senza ritorsione, il demansionamento per causa di crisi – ed oggi l’80% delle aziende sono in crisi –, il controllo a distanza con dispositivi elettronici, con conseguente completa sottomissione del lavoratore al datore. Inoltre, si vorrebbe arrivare alla stipula di contratti decentrati derogando ai Contratti Collettivi Nazionali, come già successo in Fiat: questi contratti implicano la separazione dei conflitti e la riduzione dei salari, come è successo in Grecia e Spagna. Insomma: la crisi sta diventando l’occasione per spezzare le reni ai lavoratori, per dividerli sul posto di lavoro ed isolarli, in modo da dover confrontarsi con il padrone partendo da una posizione di assoluto svantaggio.»
Non si tratta di rischi astratti: i lavoratori sentono sulla propria pelle i pericoli che corrono a seguito dei provvedimenti che il Parlamento si appresta ad approvare. «Questa volta in fabbrica si avverte un clima diverso – ammette Francesco -, c’è molta maggiore preoccupazione. Indubbiamente pesa la particolare situazione in cui si trova l’Ilva. Avrai letto che una della ipotesi che il Ministero dello Sviluppo Economico sta vagliando è l’applicazione della cosiddetta “legge Marzano”, cioè la procedura di amministrazione controllata. Di fatto, verrebbe dichiarato il fallimento dell’attuale società, e le attività passerebbero a una “new company”. Per i lavoratori significherebbe essere licenziati e riassunti. Ora, se questa operazione si compie dopo l’approvazione del Jobs Act di fatto tutte le norme introdotte da quella legge – che si applicano proprio ai neo-assunti – ricadrebbero anche su di noi». Praticamente un salto all’indietro di dieci anni. «Ciò che allarma i lavoratori sono principalmente due aspetti: il contratto a tutele crescenti e il demansionamento. Col primo, di fatto, torneremmo nella condizione in cui siamo entrati quando avevamo vent’anni: senza tutele effettive, continuamente esposti al rischio di licenziamento, e quindi ricattabili in tutto e per tutto. Col secondo, invece, praticamente si avrebbe la legalizzazione della Palazzina Laf». La “Palazzina Laf” è il luogo in cui, subito dopo l’arrivo di Riva all’Ilva, furono di fatto reclusi alcuni lavoratori (impiegati e tecnici) che avevano subito un secco demansionamento dalla sera alla mattina: forse il caso di mobbing più grave della storia d’Italia. «Oggi non ci sarebbe più bisogno di rinchiudere i lavoratori nella Palazzina Laf – spiega Francesco – perché con le norme introdotte dal Jobs Act l’azienda può tranquillamente demansionarti senza doversi neanche giustificare con un cambio di postazione di lavoro. Questo insieme di elementi terrorizza i lavoratori perché si traduce in un pericolo concreto per i salari, che potrebbero ridursi drammaticamente. E oggi l’operaio medio non è più il ventenne che vive a casa coi genitori: è un padre di famiglia, di famiglie spesso monoreddito, sulle quali gravano mutui e finanziamenti».
La paura induce nei lavoratori effetti ambivalenti. «L’offerta di Arcelor Mittal di cui si parla da un po’ di tempo spaventa», segnala Francesco . «I lavoratori si chiedono: perché questa, che è una grande multinazionale, vuole comprare l’Ilva, che sta andando a rotoli? Alcuni sono ben consapevoli che il rischio è che Mittal si prenda il portafoglio clienti di Ilva e chiuda gli impianti, lasciando tutti a casa; altri magari non si danno una risposta netta, ma l’angoscia la sentono eccome. Il timore che ci possano essere esuberi strutturali, e in quantità notevoli, è diffuso. Così come si avverte il pericolo che il nuovo padrone si rifiuti di applicare l’AIA: ormai, dopo quello che è successo negli ultimi due anni, finalmente c’è molta più attenzione che in passato ai problemi sanitari e molti non sono più disposti a rischiare la vita per il lavoro. Ecco, tutte queste ansie le vengono a sfogare con noi delegati, soprattutto con noi della Fiom. Ci chiedono di anticipare le mosse del governo, di fare qualcosa. Poi però quando li chiamiamo allo sciopero non rispondono compatti. Il problema è che in tutti questi anni è prevalsa la frammentazione, e la paura di questi mesi accentua l’isolamento: la tua ossessione diventa salvarti, qualunque cosa accada. E finisce che non ti rendi conto che puoi salvarti solo se lotti insieme ai tuoi compagni, altrimenti è finita per tutti». Un piccolo segnale positivo sembra giungere dalle adesioni alla manifestazione di sabato prossimo. «Questa volta è successo un fatto abbastanza inedito. In altre occasioni eravamo noi a dover convincere i lavoratori a scendere in piazza; questa volta invece stiamo ricevendo molte adesioni “spontanee”: ci chiamano e prenotano il posto. Sarà che è un sabato…»
Sarà che è un sabato, sarà che di fronte a quello che sta accadendo anche all’Ilva di Taranto iniziano a scricchiolare certe vecchie abitudini. «Gli operai non sono stupidi, le capiscono le prese in giro. Per esempio, quando Gnudi afferma di aver completato il 74% delle prescrizioni previste dall’AIA, tutti capiscono che in realtà si tratta di un gioco di prestigio. Basta guardare i termini con cui l’annuncio è stato fatto. “L’AIA – dice Gnudi – non è fatta solo di rifacimenti di impianti ma anche di prescrizioni gestionali. Siamo partiti da queste ultime.” Ma di cosa stiamo parlando? Chi conosce gli impianti sa bene che l’unica differenza con il passato è la presenza di alcuni cartelli che indicano l’inizio dei lavori: le emissioni diffuse e fuggitive, il benzo(a)pirene e la diossina si sono ridotti perché alcuni impianti sono stati spenti. È un bluff: nelle cokerie, nelle aree GRF e, soprattutto, nei parchi minerari [dove è stato progettato un gigantesco lavoro di copertura, n.d.r.], la situazione è immutata rispetto al passato. Del resto, se l’AIA prevede impegni finanziari per 1,8 miliardi di Euro – ma in realtà ce ne vorrebbero molti di più – e sono stati spesi solo 583 milioni la situazione non è proprio “rose e fiori” come vorrebbe far credere il Commissario. Semplicemente Gnudi attende lo sblocco di 1,8 miliardi di Euro sequestrati ai Riva per vendere l’Ilva senza oneri ambientali aggiuntivi. Altrimenti, se il nuovo compratore dovesse sobbarcarsi queste spese, che convenienza avrebbe ad acquistare? Noi della Fiom proponiamo chiaramente un intervento pubblico, attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, per attuare tutte le opere necessarie alla messa in sicurezza degli impianti e dare così una garanzia per il futuro ai lavoratori. Vedremo se il governo vorrà confrontarsi su questo o preferirà fare gli interessi delle multinazionali dell’acciaio.»
Sono tanti i dubbi che restano a proposito del destino dell’Ilva, e pesano come un macigno sulle spalle di oltre undicimila persone. Alcuni di loro saranno a Roma sabato, altri (la maggior parte) resteranno a casa. Quello che è certo è che i prossimi mesi non saranno tempi tranquilli qui, nella “città dell’acciaio”.