Da alcuni giorni, si sente insistentemente parlare dell’ennesima trovata “rivoluzionaria” escogitata dal governo Renzi: il cosiddetto “baratto amministrativo”. Già l’espressione in sé considerata non riesce proprio ad evocare immagini di progresso e di cambiamento, ma se si passa al livello successivo dell’analisi dei contenuti di cui tale espressione si riempie, il senso di deja vu risulta ulteriormente amplificato.
Nel diritto romano arcaico esisteva l’istituto giuridico del “nexum”, codificato nelle Leggi delle Dodici Tavole, attraverso il quale il debitore di una obbligazione pecuniaria impegnava letteralmente sé stesso a garanzia dell’adempimento; qualora non avesse pagato il suo debito, infatti, egli o un membro della sua famiglia sul quale esercitasse la potestà sarebbe stato asservito al creditore, fino al soddisfacimento della obbligazione stessa. Avrebbe, in altri termini, lavorato gratuitamente per il pagamento del proprio debito. Tale istituto fu definitivamente abolito nel 326 a. C. ad opera della lex Poetelia-Papiria. Secondo Tito Livio, l’abolizione dell’istituto fu dovuta ai tumulti popolari scoppiati in seguito al caso di Gaio Publilio, asservito a Lucio Papirio per il mancato adempimento di un debito da parte del padre e fatto fustigare dal suo “padrone” per non aver assecondato le sue lusinghe sessuali. Riuscitosi a liberare, il giovane Gaio raccontò la propria disavventura ad una folla di gente, che ne rimase talmente indignata da creare disordini tali da costringere i consoli Lucio Papirio Cursore e Gaio Petelio Libone Visolo ad approvare la legge con cui il nexum veniva abolito.
Nel XVI e XVII secolo, gran parte dei lavoratori ingaggiati per lavorare nelle colonie caraibiche veniva assunta con il sistema della “servitù debitoria”; questi, infatti, impossibilitati ad affrontare le ingenti spese di viaggio per giungere nelle colonie dall’Europa, sottoscrivevano un contratto con il mercante o il proprietario dell’imbarcazione che li avrebbe trasportati, in base al quale pagavano il corrispettivo dovuto per il viaggio con la futura prestazione lavorativa. Giunti a destinazione, il contratto veniva venduto all’asta ai datori di lavoro, i quali acquistavano in questa maniera il debito del lavoratore e, quindi, le prestazioni di quest’ultimo, per un periodo che in genere variava dai quattro ai sette anni, normalmente senza salario ed in condizioni forse addirittura peggiori di quelle in cui venivano tenuti gli schiavi.
Ben noto è inoltre come, in passato, fosse possibile finire in carcere per il mancato pagamento di debiti (il granducato di Toscana, con norme assolutamente innovative a livello europeo, eliminò tale possibilità sul finire del XVIII secolo).
Per altri esempi di “precedenti storici” si consiglia anche di leggere l’ottimo articolo di Marco Bascetta uscito alcuni giorni fa sul Manifesto.
Bene, si diceva del “baratto amministrativo”. Di cosa parliamo esattamente? L’art. 24 del famigerato decreto “Sblocca-Italia” ha previsto la possibilità per i comuni di deliberare la riduzione o l’esenzione di tributi locali per i cittadini in cambio della “realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli o associati”; tali interventi “possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalita’ di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano”.
Nella prima fase di vigenza della norma, hanno usufruito di tale possibilità solo comuni di piccole dimensioni, fino a quando, alcuni giorni fa, il comune di Milano ha adottato una delibera che prevede l’istituzione di tale forma di “baratto” a partire dal 2016, precisando che potranno accedervi i cittadini incolpevolmente morosi riguardo al pagamento di tributi comunali, multe ed entrate patrimoniali (ad esempio, affitti delle case popolari e rette scolastiche), che abbiano nei confronti dell’Ente un debito minimo di 1.500 euro. In altri termini, chi non ha la possibilità di onorare i propri debiti potrà estinguerli eseguendo lavori di pulizia e manutenzione di aree comunali.
Anche il comune di Bari ha adottato un provvedimento analogo, in seguito alla presentazione in consiglio di un ordine del giorno da parte del Movimento 5 Stelle.
Cos’hanno in comune tutti i precedenti richiamati con il “baratto amministrativo”? La possibilità di estinguere un debito in denaro attraverso la messa a disposizione delle proprie energie lavorative in maniera gratuita o comunque attraverso qualche forma di coercizione fisica.
Sia chiaro, chi scrive è ben conscio della enorme differenza che passa tra il “baratto amministrativo” e le tristi pagine di storia richiamate in questo articolo; l’accostamento che se ne fa è volutamente provocatorio.
Ma ciò che preoccupa seriamente è l’ennesima regressione culturale che questa forma di “baratto” rappresenta; un ritorno all’idea, che si credeva superata, che si possa lavorare gratis per estinguere un debito (con creazione di ulteriore disparità sociale in base alle condizioni reddituali) e, più in generale, che si possa lavorare gratis.
Sotto il primo profilo, non reggerebbe l’obiezione di chi considerasse comunque l’estinzione del debito come una forma di retribuzione: secondo un principio di civiltà giuridica che si considerava ormai acquisito, il lavoro non può mai essere impegnato nella sua interezza per l’estinzione di un debito (poiché dovrebbe garantire in primis il soddisfacimento delle esigenze vitali del lavoratore), tanto che il nostro codice di procedura civile prevede il limite massimo di un quinto alla pignorabilità delle retribuzioni (ed in alcuni casi tale limite è addirittura di un decimo). Inoltre, il fatto che l’ordinanza del comune di Milano si rivolga a chi si trovi in stato di morosità incolpevole dimostra come i destinatari del provvedimento non abbiano nemmeno una effettiva possibilità di scelta della modalità di pagamento dei propri debiti.
Sotto il secondo profilo, tale idea si colloca perfettamente nel solco di una narrazione che ci pervade ormai quotidianamente, secondo cui il lavoro offre comunque, in quanto tale, gratificazione e possibilità di accumulare esperienza, a prescindere dalla retribuzione. Negli ultimi tempi abbiamo visto il Ministero dei Beni Culturali invocare l’ausilio di duemila volontari per la tutela del patrimonio culturale, anziché procedere all’assunzione di tanti giovani professionisti della cultura in cerca di lavoro, il cui apporto in termini di competenze sarebbe evidentemente necessario; abbiamo constatato come il tanto propagandato Expo si regga in buona parte sul lavoro non pagato di numerosi giovani volontari; abbiamo dovuto ascoltare le discutibili esternazioni di qualche “guru” à la Jovanotti, che ci ha spiegato come, in fondo, lavorare gratis non sia poi così sbagliato.
Ora, amministrazioni che si dichiarano di sinistra o movimenti che promettono fuoco e fiamme contro la “casta”, ci propinano questa ulteriore forma di approvvigionamento di manodopera a buon mercato.
Per tacere, poi, della ennesima dimostrazione di dilettantismo ed improvvisazione nella tutela del patrimonio urbano e pubblico in generale, dove l’iniziativa viene ormai sempre più delegata all’impulso spontaneo di singoli individui o di gruppi sparuti, senza che vi sia alla base una programmazione seria ed una minima idea di sviluppo; e per tacere dello stato comatoso in cui sono lasciati gli enti locali, oggetto di continui tagli, cui si cerca di sopperire delegando a qualche debitore volenteroso il lavoro che dovrebbe essere svolto da personale regolarmente retribuito.
Il compito di uno Stato non dovrebbe essere quello di dare a delle persone in difficoltà economiche l’illusione di poter essere utili, ma di mettere quelle persone in condizione di poter regolarmente pagare i propri debiti con una parte del proprio reddito, lasciandole libere di decidere come impiegarne la restante parte.