Gli studi legali sono popolati da migliaia di praticanti, a cui si aggiunge un vastissimo esercito di collaboratori e partite Iva, senza contratto e precari, la cui attività non è regolamentata in nessun modo e le cui condizioni variano da caso a caso. Per il neo laureato in giurisprudenza che si affaccia per la prima volta al mondo del lavoro, la pratica è una condizione necessaria per poter sostenere l’esame e conseguire l’abilitazione per l’esercizio della professione. Tuttavia l’attività svolta dal praticante, molto spesso non è remunerata o è retribuita con un rimborso spese ridicolo. Mancando un inquadramento lavorativo concreto, i giovani che non possono contare sull’aiuto economico delle proprie famiglie vedono preclusa la possibilità di svolgere la professione di avvocato. Chi non ha uno studio avviato alle spalle gestito da parenti o amici in grado di offrire un aiuto, stenta a mantenersi, senza alcuna tutela, ma con un’alta professionalità e formazione. Il non regolamentare e tutelare queste figure ci pone in una situazione di subire una concorrenza anche in Europa, dove negli altri Paesi dell’Unione Europea i laureati in giurisprudenza, vengono subito assunti negli studi legali con contratto e percepiscono uno stipendio degno di questo nome, con una retribuzione rapportata alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Quanti siano i giovani laureati in queste condizioni è difficile stabilirlo, ma basti pensare che il 41,5% delle nuove partite sono di persone sotto i 35 anni. Molti di loro non sono lavoratori autonomi a tutti gli effetti ma subiscono una condizione di sfruttamento per poter lavorare. Il discorso non è applicabile a tutti, ma esiste una parte di avvocati che sfruttano le “maglie larghe” della normativa nazionale per reperire manodopera per i propri studi legali a costo zero. In questi casi, il praticante inizia la sua formazione professionale,divenendo, nel giro di alcuni mesi, parte integrante dello studio legale nel quale è inserito, coadiuvando le attività o gestendole in proprio e sotto il controllo, spesso sporadico, del dominus. Si è così prodotta la prassi di ritenere il praticante, uno “studente della professione” grato al suo dominus perché lo forma presso lo studio, al cui apporto non segue, però, alcun riconoscimento. Anzi. Se sostiene spese personali per svolgere la pratica e se produce un guadagno al suo mentore, questo non è di interesse alcuno del dominus. I giovani praticanti e collaboratori degli studi legali lavorano per un minimo di 4 ore giornaliere sino ad un massimo di 10 ore, con obblighi di dover concordare con il titolare dello studio ogni più minima attività personale (attività di formazione, politiche, di volontariato, vacanze etc…). Il praticante è oggi un soggetto che rischia di perdere ogni dignità sul luogo di lavoro.
Tale situazione è lesiva di principi fondamentali di rango costituzionale come quelli al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), alla dignità sociale (art 3 Cost.), alla proporzionalità della retribuzione (art. 36 Cost.), al divieto di contrasto dell’iniziativa economica privata con la libertà e la dignità umana (art. 41 c. 2 Cost.). Ma oltre a violare la normativa costituzionale, tale situazione è contraria, “Alla funzione sociale dell’avvocato di tutela degli interessi individuali e collettivi, di difesa dell’ordinamento costituzionale e di valorizzazione del merito delle giovani generazioni (art. 1 L. 247/2012). Proprio la legge professionale recentemente approvata prescrive all’articolo 41 comma 11, che “Negli studi legali privati, al praticante avvocato è sempre dovuto il rimborso delle spese sostenute per conto dello studio presso il quale svolge il tirocinio“. In tal senso si impone un dovere che abbraccia tutto l’arco temporale di pratica legale, senza eccezioni, e che si delinea nell’obbligatorietà di riconoscere al praticante avvocato il rimborso per le spese di trasporto da e verso lo studio legale; spese di vitto nel caso in cui lo studio si trovi al di fuori del luogo di residenza del praticante o ad una distanza tale che non permetta il suo ritorno presso la propria abitazione ai fini dei pasti; spese sostenute per recarsi presso gli uffici giudiziari per svolgere le attività di studio; spese sostenute per avallare le richieste del dominus e l’etica di studio (vestirsi in un determinato modo ad esempio); spese eventuali direttamente collegate all’attività di studio e allo studio.
Ma nell’80% dei casi in Italia tale obbligo non viene adempiuto o è adempiuto in modo parziale. Inoltre, la stessa legge professionale nella stessa norma prevede che “Ad eccezione che negli enti pubblici e presso l’Avvocatura dello Stato, decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato“. Questa norma, sui cui sono stati avanzati dubbi di legittimità costituzionale, prevede in ogni caso la facoltà di riconoscimento di un’indennità o di un compenso per l’attività svolta per conto dello studio che tenga conto anche dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio medesimo.
Inoltre, la normativa legislativa deve essere letta in combinato con le norme deontologiche di categoria che delineano un panorama nettamente diverso. Tali norme deontologiche impongono un vero e proprio dovere di compensare la collaborazione in proporzione all’apporto ricevuto sia per il collaboratore che per il praticante, tuttavia, queste nome norme deontologiche vengono interpretate da molti avvocati, titolari degli studi legali, in un modo che contrasta con l’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale del Codice Civile. Il Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 31.01.2014 ha approvato il nuovo Codice Deontologico Forense, il quale dedica l’art. 40 ai rapporti tra avvocato e praticanti. Nello specifico il comma 2 stabilisce l’obbligatorietà del rimborso delle spese sostenute e, dopo il primo semestre di pratica, un compenso adeguato tenuto conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio. Rispetto al passato, si tratta di un enorme passo avanti, per quanto attiene la nostra categoria in quanto cade nella deontologia quel parametro del “apporto dato allo studio” ed il compenso è dovuto sulla base unicamente della presenza nello studio e dello svolgere l’attività. Ora, però si dovrà capire come verrà inteso il termine “adeguato”, ma comunque assistiamo ad un passo in avanti che non possiamo negare. Ciò è rafforzato dal comma 5 del medesimo articolo che prevede espressamente che, a seguito di esposto al Consiglio dell’Ordine, l’avvocato che non si attiene potrà essere avvertito del suo comportamento non conforme ed in caso di condotte reiterate, nel combinato con l’art. 22, comma 2, potrà essere disposta la sospensione dall’esercizio della professione per due mesi.
Il legislatore, per realizzare qualcosa di concreto contro il precariato e per dare una prospettiva di futuro ai molti giovani che lavorano negli studi legali, dovrebbe incoraggiare quanto previsto dal ultime normative affinché il praticantato possa essere svolto con un contratto di apprendistato del 3° tipo, ossia quello di “Alta formazione e di ricerca”, e regolamentare tramite contratto collettivo nazionale le collaborazioni con o senza partita Iva, che non hanno le caratteristiche del lavoro autonomo. In questo modo si possono gettare le basi per far estendere a questa fetta di lavoratori precari principi di civiltà, come la stipula di un contratto scritto, il diritto alla formazione continua, una giusta retribuzione, diritto alle ferie, tutele per malattia, infortuni e maternità, che non possono essere lasciate alla discrezionalità del dominus, ma che devono essere sanciti per tutte e tutti e diventare finalmente esigibili erga omnes. Inoltre vanno incoraggiati e estesi tutti gli interventi nazionali e regionali finalizzati a sostenere questi principi, cercando di superare le attuali incompatibilità che impediscono agli iscritti agli ordini di lavorare in uno studio legale in qualità di dipendenti.