3 giorni di proiezioni nella suggestiva cornice di Palazzo Pantaleo, in Città Vecchia, e una serata finale nell’Università di via Duomo: il Festival Internazionale del Cinema Documentario di Taranto – Premio Marcellino De Baggis si è caratterizzato innanzitutto come una questione di luoghi. “Condividere la solitudine che porta con sé un’isola e la meraviglia di approdare invece in una terra tutta da scoprire”, sono le parole del direttore artistico Alfredo Traversa nelle note di presentazione della manifestazione, e in effetti la dichiarazione d’intenti si è fatta lampante e coerente, con il procedere delle visioni. C’è un mondo da riscoprire, sia esso il Borgo Antico di Taranto in cui questo Premio ha sempre trovato asilo, oppure quello “di fuori”, in un’operazione a metà fra il reimparare a vedere ciò che si trova da sempre sotto gli occhi, e lo scoprire realtà altre e poco visibili.
Di qui, naturalmente, l’idea di partire dalla scomparsa di Marcellino De Baggis, filmmaker locale, regista e direttore della fotografia, aperto alle grandi questioni del mondo, realizzatore di documentari per l’ONU e la FAO, e allo stesso tempo curioso scopritore di realtà nascoste, come ha dimostrato il suo Quintosole – mostrato nella serata finale – sull’entusiasmante campionato della squadra di calcio formata dai detenuti del carcere Opera di Milano. A lui la famiglia ha intitolato un festival del cinema documentario, con 23 opere selezionate per indagare sulla realtà. Da anni il documentario è un genere privilegiato per molte manifestazioni tematiche, ma è anche un territorio articolato su più fronti: permette infatti l’indagine contenutistica su tematiche più o meno “forti” e difficili del nostro tempo; e favorisce anche la ricerca formale, attraverso la capacità dei singoli autori di sperimentare e “rompere” la rigidità dello schema narrativo di matrice meramente divulgativa. Un universo capace, insomma, di offrire materiale per curiosi, affascinati dalla complessità del mondo, ma anche per chi al cinema chiede sempre quella capacità di trasfigurare il soggetto in modalità espressive più ricercate. Un festival che – come ha rimarcato spesso lo stesso Traversa – si è posto l’obiettivo di essere necessario, non popolare o di massa, con piccoli numeri, lontano dalle lusinghe da red carpet, in un clima di convivialità che restituisse l’idea del confronto con le singole idee e gli artisti coinvolti. L’aspetto migliore, allora, è stato quello del ritorno nei luoghi dell’infanzia di Taranto per aprirsi a prospettive differenti.
La sensazione primaria, alla fine del percorso, è stata quella di una manifestazione volenterosa e piena d’umanità, forse a tratti bisognosa di maggiore sistematicità nell’organizzazione della materia, dove si è privilegiata l’eterogeneità dei contenuti alla compattezza della proposta: molte le opere viste, spesso diseguali, a tratti più orientate al cosa che al come si raccontava, dove magari si poteva limitare la corsa al premio finale a meno titoli, delegando al Fuori Concorso il passaggio dei lavori meno radicali. La giuria, presieduta da Roberta Torre, ha assegnato i premi secondo le due categorie di selezione. La prima, “Mistero”, era riservata ai filmmaker italiani agli inizi della loro carriera, e ha visto trionfare il bel Uomini proibiti, di Angelita Fiore, che affronta il delicato tema del celibato dei preti attraverso tre storie esemplari: Anna è stata abbandonata dal suo uomo e deve crescere da sola sua figlia. Lui è infatti un prete e non ha voluto rinunciare all’abito talare, e il loro rapporto è fatto di continui andirivieni tra fughe, negazioni della realtà e improvvisi ritorni. Una storia complessa e ancora in fieri nei suoi strascichi legali, tanto che di Anna non vediamo mai il volto. La situazione di Fidelia è invece più felice: il suo compagno ha infatti abbandonato l’ordine e ha abbracciato con gioia la nuova vita familiare; c’è infine Fausto, un anziano ex-missionario, entrato in seminario in giovanissima età, che ha sofferto la coercizione delle applicazioni più rigide della dottrina e la costante demonizzazione della donna da parte della Chiesa. La sua figura, segnata dal passato, è quella più esemplare, simboleggiata da una vita spesa fra il Brasile e l’Italia, che lo ha reso una persona non stanziale e sempre a metà fra i vari stati d’animo, che ha trovato un equilibrio grazie all’amore per Luiza – ex suora, figura straordinaria e prodiga d’amore, capace di affrontare le difficoltà con forza d’animo e semplicità genuina. L’oscillazione dei toni fra la militanza cara alla regista nell’affrontare il tema e la naturalezza con cui la figura di Fausto riscrive “al maschile” un dramma scritto per mostrarne le ricadute soprattutto nella sfera femminile, rende il tutto molto interessante.
La seconda categoria, Nuovi Orizzonti, era invece dedicata al documentario internazionale, e ha visto premiato L’equilibrio del cucchiaino, di Adriano Sforzi, racconto intimo e personale sull’ultimo grande equilibrista circense, Bertino Sforzi, che diventa così riflessione sul cambiamento dei tempi. Una Menzione Speciale della Direzione Artistica è poi andata a Sixty Spanish Cigarettes, di Mark John Ostrowski, che ha rappresentato quella qualità più “di ricerca” sul linguaggio delle immagini, cui si accennava in precedenza: il racconto di un gruppo di viaggiatori rimasto bloccato da una tempesta su un’isola è infatti raccontato in “un efficace bianco e nero, con inquadrature fisse che ci ridanno la materialità del cinematografo”.
Da ricordare, fra i premi collaterali, anche quello speciale del Touring Club Italiano a Meno male è Lunedì, di Filippo Vendemmiati, che racconta il passaggio di consegne fra due generazioni di operai: un gruppo di veterani, che ha accettato di tornare a indossare i guanti pur essendo ormai in pensione, insegna infatti il mestiere ad alcuni detenuti, nell’officina di un carcere, confrontando due mondi e due epoche. Lo sguardo di Vendemmiati racconta il tutto con scioltezza e una bella capacità di raccontare questi mondi con la forza delle immagini, oltre che con le testimonianze dei personaggi coinvolti. Il carcere, come già nel citato Quintosole dello stesso de Baggis, diventa così un mondo chiuso ma allo stesso aperto, una realtà appunto dove reimparare a vedere quanto sembra già irrimediabilmente segnato e dove il rimosso torna a galla aprendo nuove prospettive. Una questione di luoghi, appunto.