Gli stereotipi, la morte dell’Arte; un lettore (o spettatore) odia gli stereotipi, ma la massa li adora! Ed ecco perché sono molto utili a chi mantiene il potere. Un vecchio trucco. Funzionava nella Germania nazista, funziona ancora oggi in Italia e in tutto il mondo.
«Ma, rabbino! È di vostra sorella che parliamo!».
«Sì, ma cento marchi sono sempre cento marchi!».
Risate, applauso, sipario. Zekh buttò fuori uno sbuffo, scrollò le spalle e tolse la kippah nera scamosciata. Diede una pacca a Shlomo e gli sorrise. Anche quella sera lo spettacolo era stato un successo.
In camerino, i due erano alle rispettive specchiere. Alla radio trasmettevano delle piacevoli romanze italiane. Zekh staccò dalla faccia i baffetti posticci, il pizzetto alla Mefisto e il ridicolo naso a uncino di gomma rosea. Alitò sulle lenti spesse degli scheletrici occhiali che ripose nella custodia e sfilò via i boccoli peyot dalle ciocche sulle orecchie.
Mentre applicava il naso di gomma sulla testa di manichino, Zekh sospirò. «Sai che ti dico, Shlomo? Vorrei sperimentare qualcosa di nuovo, osare di più».
Shlomo stava togliendo con cura le sopracciglia posticce, a forma di cespuglio. «Cioè?».
«Sono stufo di queste commediette. Voglio dire, non facciamo che ripetere sempre gli stessi stereotipi! E gli ebrei sono mammoni, sono tirchi, sono avidi, sono furbacchioni. Non sei stanco di tutto questo? Questi stereotipi sono roba vecchia, da medioevo».
Shlomo teneva il suo naso – lungo di natura – a due centimetri dallo specchio e pinzettava i peli superflui tra le sopracciglia. «Al pubblico continua a piacere».
«Be’, io però sono stufo di essere la macchietta che fa felice il popolino tedesco».
La trasmissione radiofonica fu interrotta bruscamente. Uno speaker annunciò l’ultimo discorso del Cancelliere, e dopo qualche secondo, la voce dell’uomo più potente della Germania rimbombò nel camerino come il tuono che annuncia un temporale. «Quando lottavo per raggiungere il potere, il popolo dei giudei era il primo a prendere solo con il riso le mie profezie che io un giorno in Germania avrei assunto la guida dello stato e di tutto il popolo e allora avrei trovato una soluzione, fra i tanti problemi, anche a quello degli…».
Shlomo girò la manovella e la radio tacque. Terminò di eliminare i peli superflui e poi sbuffò. «Me ne vado, Zekh. Parto».
Zekh sbarrò gli occhi. «Di che stai parlando? Andare dove?».
«Stati Uniti. Ho uno zio che può ospitarmi. Parto stanotte».
«Ma… siamo ancora a metà della tournee».
«Vieni via anche tu, riprendiamola negli Stati Uniti».
«Dovremmo ricominciare da capo e farci conoscere da un pubblico tutto diverso».
«L’hai appena detto che vuoi provare qualcosa di nuovo, o no?».
Zekh rimase con la bocca aperta a metà, la replica gli era morta in gola. Scosse il capo, strinse le labbra. «Shlomo, è vero che voglio tentare nuove strade, ma cambiare registro e tematiche è una cosa, cambiare pubblico è un’altra».
Shlomo fece spallucce. «Scegli tu. Io parto stanotte. Prendo il primo treno per Parigi».
Bussarono alla porta, Zekh sobbalzò.
«Che c’è?».
Da dietro la porta rispose la segretaria. «Chalom, una chiamata per te».
«Da parte di chi?».
«Il Ministro della Propaganda».
Shlomo era impallidito, e anche lui, come constatò sbirciandosi allo specchio. Le gambe iniziarono a tremargli. Si alzò lentamente dalla sedia imbottita, andò alla porta, la aprì, scambiò un’ultima occhiata con Shlomo – che scuoteva il capo – e seguì la segretaria verso la cabina.
Zekh portò la cornetta all’orecchio e balbettò un «Sì?».
«Zekh Chalom, buonasera».
La voce del Ministro era stridula e acuta come il verso di un rapace in caccia.
«Onoratissimo, Ministro».
«Leggo delle recensioni interessanti sulla tua ultima commedia e voglio farne un film. Esprime appieno ciò che voglio per la mia propaganda. Ho fatto modificare il calendario della tournee, l’ultima serata la terrai qui, a Berlino. Faremo riprendere la commedia da un regista».
Zekh cercò di allargare il colletto della camicia uncinandolo con l’indice. «Io… io ringrazio Sua Eccellenza, ma… ecco, io e il mio socio pensavamo di interrompere la tournee in anticipo».
«Va bene. Vorrà dire che terrete il vostro ultimo spettacolo a Berlino».
Zekh annaspò, contò fino a cinque, prese fiato e poi disse «Ministro, non so se ne siete al corrente, ma io sono davvero di origini ebraiche».
«Non essere ingenuo, Chalom. Decidiamo noi chi è ebreo e chi no. Organizzati, entro la fine del mese voglio che sia tutto pronto per le riprese». La comunicazione fu interrotta, un brusco clic.
Zekh lasciò cadere la cornetta, che penzolava dall’apparecchio come un impiccato, si accasciò contro la parete della cabina, si rannicchiò e infilò le dita nei capelli, tirandoli fin quasi a strapparseli, poi cominciò a singhiozzare.