Ha fatto scalpore, solo pochi giorni fa, la notizia che lo street artist Blu ha deciso di cancellare tutte le sue opere eseguite per Bologna. La ragione: evitare che esse venissero strappate dai muri della città per essere esposte alla mostra Street Art. Banksy & Co. L’arte allo stato urbano, prevista dalla Genus Bononiae di Fabio Roversi Monaco per il 18 marzo prossimo, con la collaborazione di Fondazione Carisbo. L’azione, irreversibile, è stata motivata dallo stesso Blu con una semplice, ma diretta frase comparsa nel suo blog come didascalia di un’immagine che ha già fatto il giro del mondo: «A Bologna non c’è più Blu e non ci sarà finché i magnati magneranno. Per ringraziamenti o lamentele sapete a chi rivolgervi».
Non si tratta evidentemente del colpo di testa di un artista, di un capriccio fine a se stesso, di una maniera di far parlare di sé. Si tratta di un atto di estrema coerenza, sia nei confronti di una forma d’arte che, come ricordano, in un bel pezzo uscito sulla questione, i Wu Ming, è paradossale immaginare chiusa in un museo, che della concezione di pubblico che quella forma d’arte prevede: un pubblico ampio e, soprattutto, non pagante. Praticamente, l’incarnazione più autentica del principio di pubblica fruizione, ovvero possibilità per chiunque, indipendentemente dalla condizione delle proprie tasche, di poter godere dell’opera d’arte.
Non mi soffermo sulla figura di Fabio Roversi Monaco, per la quale rimando ancora una volta alle osservazioni di Wu Ming. Tuttavia, mi pare doveroso far presente come questo disastroso esito costituisca probabilmente l’apice, seppur involontario, di un processo iniziato già nel 2014, quando sempre la Genus Bononiae decise di promuovere la mostra Da Cimabue a Morandi. Felsina pittrice (curata da Vittorio Sgarbi) che suscitò l’indignazione del Gotha degli storici dell’arte di tutta Italia (e non solo) per via dello spostamento, all’interno di un contenitore privato, di opere (di cui alcune dei veri e propri capolavori) esposte nelle sale dei musei pubblici bolognesi e nelle chiese (ne abbiamo parlato qui). Fu allora la sezione bolognese di Italia Nostra ad avviare una raccolta firme da indirizzare al Ministro Franceschini contro una mostra «priva di alcun disegno storico e della benché minima motivazione scientifica, un insulto alle opere, trattate come soprammobili, all’ intelligenza del pubblico; alla memoria di Longhi e Arcangeli — e naturalmente un attacco ai musei, con la colpevole connivenza di chi li dirige». Ne seguì la solita querelle con Sgarbi che il Ministro Franceschini, all’inaugurazione della mostra (che è poi stata fatta!) liquidò con un bonario «so che questa mostra ha fatto molto discutere e quando c’è Vittorio le discussioni sono garantite». Come se fosse stato, in quel caso, la stramberia di un’intera comunità scientifica.
Ma Genus Bononiae resta fedele alla propria linea anche successivamente: ha imposto, ad esempio, il pagamento di un biglietto per poter vedere il Compianto in terracotta di Niccolò Dell’Arca nella chiesa di Santa Maria della Vita, un capolavoro della plastica rinascimentale, gratuitamente fruibile fino allo scorso settembre e il cui godimento è ora vincolato a un ticket. Da patrimonio comune a sollazzo per chi può permetterselo.
Allora si comprende ancora meglio come l’azione di Blu sia un ulteriore passo in un processo che, con quest’ultimo tassello, assume una connotazione rivoluzionaria. Alla pretesa “valorizzazione” dell’arte, si oppone chi ritiene che valorizzare non sia monetizzare: si sono mossi i piani “alti” ma, con quest’azione, si è arrivati al paradosso di difendere l’arte distruggendola. E non posso negare la suggestione un po’ romantica che mi ispira il pensiero che questo gesto di Blu sia esso stesso, in sé, un’opera d’arte. Estrema, senza dubbio, ma che incarna appieno quello che dovrebbe essere il senso più autentico dell’artista oggi: fare emergere con forza le contraddizioni della società in cui vive. In questo caso, le contraddizioni sono legate ancora una volta alla volontà di rendere per pochi ciò che è per tutti, di fare cassa su opere che nascono per essere fruibili gratuitamente e che sono frutto dell’altrui lavoro, di musealizzare – e dunque, ipocritamente legittimare – ciò che viene in genere tacciato come atto di vandalismo.
La storia dell’arte, d’altronde, ci ha abituato ad artisti che distruggono le loro opere perché cambiano le condizioni delle loro menti, i valori in cui credono, le situazioni politiche. E il grigio che ora campeggia sui muri della città felsinea non è diverso da quello che si sarebbe visto se i graffiti di Blu fossero stati rimossi dai luoghi che li hanno ispirati: l’effetto è probabilmente identico, ma condito da un’azione da chiromante, carica di preveggenza, che è, assieme a un sublime momento d’arte anche un gesto politico di incredibile forza; perché ti costringe a una riflessione alla quale non siamo più abituati. Mi domando, ad esempio, se questo sistema di gestione del patrimonio corrisponda a quello che avrebbe dovuto portare, almeno sul piano culturale, una parità tra i cittadini, senza alcuna distinzione di ceto; e sono costretta a rispondermi, sommessamente, di no.
Blu dunque distrugge, certamente con dolore, per coerenza. Qualcosa che, forse, oggi ci fa un po’ paura, ci lascia interdetti; e, anch’essa, ci fa porre delle domande.
Ci auguriamo solo che siano quelle giuste e che, soprattutto, ci si sappia dare le giuste risposte.
StecaS