59 anni, palermitano, segretario nazionale della Fiom, Rosario Rappa era alla testa del corteo che mercoledì è stato caricato dalla polizia a pochi passi dalla sede del Ministero dello sviluppo economico, in Via Veneto, a Roma. Rappa, già segretario provinciale della Fiom di Taranto, era lì con gli operai della Acciai Speciali Terni (AST), l’acciaieria il cui futuro è messo in discussione dal piano industriale presentato dalla Thyssen Krupp, la multinazionale tedesca proprietaria dello stabilimento. La foto della sua testa spaccata dai colpi di manganello (cinque punti di sutura) ha fatto il giro dei media nazionali ed esteri. Ma perché caricare un corteo pacifico di lavoratori? Lo abbiamo chiesto allo stesso segretario.
Perché eravate a Roma? E cosa è successo con la polizia?
Eravamo coi lavoratori di Terni sotto l’ambasciata tedesca a Piazza Indipendenza, dove siamo stati ricevuti dal responsabile economico dell’ambasciata, al quale abbiamo chiesto di sollecitare l’intervento del loro governo rispetto a quello che sta succedendo alla AST. Siamo stati lì fino circa alle 12, poi abbiamo deciso di muoverci verso il Ministero dello sviluppo economico, dove in mattinata c’era stato un incontro fra il ministro Guidi e l’amministratore delegato della AST, Morselli. L’intenzione era di farsi riferire dal ministro come fosse andato. Allora abbiamo formato un corteo, coi dirigenti sindacali dietro lo striscione, e ci siamo incamminati. Arrivati a dieci metri dal Ministero ci hanno caricati a freddo, senza che ci fosse stato nessun contatto fisico.
Ma allora perché vi hanno caricati?
O c’è stato un atteggiamento di incapacità nella gestione della piazza (cosa di cui dubito) o è stata una cosa premeditata. Uno degli elementi che mi fa riflettere è che, immediatamente dopo la carica, la Questura di Roma ha emesso un comunicato in cui si dice che il corteo era diretto verso la stazione Termini con la volontà di occuparla. Questa è evidentemente una falsità: noi stavamo in via Veneto, dal lato di piazza Barberini, per cui per andare in stazione ci saremmo dovuti muovere nel senso opposto. Mi pare quindi che ci sia stato il tentativo di criminalizzare una manifestazione pacifica, che poi sostanzialmente si è svolta. Finita la carica infatti abbiamo ricomposto il corteo, siamo andati sotto il ministero e siamo stati ricevuti. In tutto questo i lavoratori hanno dimostrato grande senso di compostezza: va dato merito ai siderurgici ternani.
Quindi non c’è la possibilità, come ha detto Alfano, che ci sia stato un “equivoco”?
Che ci possa essere stato un equivoco è assurdo. La polizia sapeva, perché lo avevamo comunicato ore prima, che volevamo andare al Ministero dello sviluppo economico. D’altra parte lo stesso Alfano in un incontro con noi ha riconosciuto che quella di mercoledì è stata “una pessima giornata”.
Lo stesso Ministro degli interni ha dichiarato che non si devono esacerbare gli animi nel paese.
Se il suo richiamo è rivolto alla polizia, sono d’accordo. Noi abbiamo sempre gestito pacificamente le nostre manifestazioni. E’ quindi un problema della polizia e del governo non esacerbare gli animi nella situazione di crisi sociale che il paese sta attraversando. E mercoledì hanno fatto esattamente il contrario. I lavoratori non si manganellano, si ascoltano.
Come si è arrivati a questo punto nella vertenza AST?
Il confronto è cominciato il 17 luglio, quando l’azienda ha presentato un piano industriale con una dichiarazione di 570 esuberi, con la riduzione dei livelli produttivi attraverso la chiusura di uno dei due forni elettrici e con la richiesta di un taglio del salario aziendale. Queste intenzioni, prima che ai sindacati, sono state illustrate al governo. Noi abbiamo considerato da subito quel piano inaccettabile, per tre ragioni. Primo, la riduzione della capacità produttiva implica, in prospettiva, la messa in discussione della stessa esistenza di quel sito; secondo, la gestione degli esuberi prospetta licenziamenti secchi nel caso in cui i lavoratori non accettino gli incentivi ad andare a casa; terzo, tutti gli integrativi aziendali verrebbero azzerati.
Il governo era d’accordo con l’impostazione dell’azienda?
Il governo ha registrato quelle richieste, dopodiché si è avviato un confronto che aveva trovato un primo “accordo” su un’ipotesi metodologica di percorso, il 3 settembre. In sostanza si ammetteva la possibilità di modificare il piano industriale e ci si dava un mese di tempo per trovare un’intesa. Il governo ha provato a fare una sua proposta di mediazione, che però è stata rigettata sia dalle organizzazioni sindacali che dall’azienda. Si è così arrivati al 4 ottobre senza un accordo, ed è partita la fase conflittuale.
Mentre voi venivate manganellati, sempre a Roma c’erano almeno altre due manifestazioni contro la chiusura di altrettante fabbriche. Cosa sta succedendo all’industria italiana?
In generale, si può dire che interi settori oggi rischiano di saltare. Basti pensare alla siderurgia. Contemporaneamente sono in atto situazioni di crisi acuta all’Ilva, a Piombino, a Terni. Stiamo parlando di 25/26 mila lavoratori. Se non emerge una impostazione di politica industriale questa gente rischia di andare a casa dalla sera alla mattina. C’è tutto l’indotto dell’auto. Mercoledì con noi davanti al ministero c’erano anche i lavoratori della TRW di Livorno e quelli della Jabil di Caserta: due aziende che contano rispettivamente 500 e 300 dipendenti, e che stanno chiudendo. Ogni giorno si segnala un caso di questi. Di fronte a questa situazione il governo deve rispondere con politiche industriali, non con le cariche della polizia. Il tema dell’intervento pubblico nell’economia è ormai di estrema attualità, come dimostrano d’altra parte le politiche dello stesso governo tedesco – che sta incentivando la ristrutturazione del sistema industriale di quel paese.
Landini ha detto che “al netto di slogan del cazzo, il governo si deve dare una mossa, altrimenti la Fiom andrà avanti”. Che significa che “andrete avanti”?
Significa che abbiamo già proclamato uno sciopero generale per la categoria, con due manifestazioni (una a Milano il 14 novembre e una a Napoli il 21). Inoltre, il 12 novembre ci sarà il direttivo della CGIL, al quale chiederemo di proclamare lo sciopero generale. Noi non ci fermiamo alla grande manifestazione del 25 ottobre, ma appunto “andiamo avanti” fino a quando non cambierà la linea di politica economica del governo.
E se anche dopo gli scioperi il governo continuerà a ignorarvi?
Continueremo col conflitto. Più crescono le piazze, più Renzi dovrà porsi un problema politico: ha il consenso reale del paese o ha solo il consenso “virtuale”? Perché lui può avere anche il consenso dei poteri forti, ma le piazze dimostrano un’altra cosa: che il paese reale, quello che sta subendo gli effetti della crisi, via via si sta rivoltando e comincia a reagire. E al momento l’unico soggetto in grado di canalizzare questi umori è la CGIL.
Quando parli di “conflitto” ti riferisci anche al tema delle occupazioni delle fabbriche, già evocato da Landini?
Certo. Basta guardare a quello che sta succedendo a Terni. Lì i lavoratori stanno tenendo in piedi presidi permanenti, bloccando di fatto le portinerie in entrata e in uscita. Il ciclo quindi è fermo. Io direi che, in pratica, è un’occupazione. Ma non si tratta di iniziative fini a se stesse. Per esempio, la lotta degli operai di Terni ha costretto Renzi a dichiarare che nei prossimi giorni convocherà nuovamente il tavolo con le organizzazioni sindacali.