Da circa un paio di settimane, la Giunta regionale pugliese ha approvato il disegno di legge contenente il cosiddetto reddito di dignità.
Presentata con toni altisonanti come «un modo di essere di sinistra in modo moderno» e definito addirittura da alcuni come una sfida lanciata dal governatore Emiliano a Matteo Renzi, questa misura rischia di avere, al netto degli ovvi annunci propagandistici che la accompagnano, effetti pratici assolutamente trascurabili.
Nella relazione di presentazione del disegno di legge, la Giunta regionale si pone obiettivi di grande rilievo, tra i quali il «contrasto alla povertà e all’esclusione sociale», la creazione di «stabilizzatori automatici mediante il sostegno alla domanda interna e ai consumi» e di condizioni che possano «porre le basi per uno sviluppo equo e duraturo»; ci si ripromette di «favorire l’empowerment delle persone coinvolte e la loro attivazione, perché possano progressivamente fronteggiare autonomamente le difficoltà connesse al mercato del lavoro e al reperimento dei mezzi per una vita dignitosa».
Caratteristica della erogazione è di essere accompagnata da «un programma di inserimento sociale e lavorativo e l’accesso ad opportunità formative».
Ma di cosa parliamo, in concreto? L’art. 4 della legge regionale esordisce con una dichiarazione di intenti che potremmo definire roboante, nel momento in cui afferma che «il Reddito di Dignità regionale mira a fornire i mezzi sufficienti per una vita dignitosa»! Tale intento viene perseguito attuando tre direttrici: «(a) una misura di sostegno economico nella forma di integrazione al reddito, (b) un programma di inclusione sociale e lavorativa, sotto forma di ‘tirocinio socio-lavorativo per l’inclusione’ , (c) l’accesso ad opportunità formative».
Quanto alla prima di tali direttrici, quella del sostegno economico al reddito, l’art. 5 della legge stabilisce i limiti di accesso a tale beneficio, stabilendo che la situazione reddituale e patrimoniale familiare viene definita con riferimento all’ISEE (indicatore di situazione economica equivalente), con una soglia massima fissata ad euro 3.000. 250 euro al mese! E’ questa la soglia massima reddituale e patrimoniale per poter accedere al beneficio in questione. Appare evidente come una soglia così bassa restringa notevolmente la platea dei possibili beneficiari dell’intervento, lasciando fuori soggetti che non possono certamente essere considerati percettori di un reddito dignitoso.
La stessa Giunta regionale, sempre nella citata relazione introduttiva, stima che i benefici interesseranno una platea di circa 60.000 soggetti, a fronte di circa 320.000 individui poveri residenti in Puglia. Anche a voler dar credito a questa stima (peraltro molto bassa), occorrerebbe poi verificare quante di queste 60.000 persone potranno percepire una erogazione significativa, per quanto si dirà tra poco.
Infatti, quanto all’importo della erogazione, esso varia in base ad una serie di criteri definiti dall’art. 6 (reddito e situazione patrimoniale, composizione del nucleo familiare, condizione abitativa, altre condizioni di disagio, articolazione del percorso di inserimento sociale), norma che stabilisce quale importo massimo erogabile quello di 600 euro mensili, cui si può avere diritto in presenza di un nucleo familiare di almeno cinque componenti; l’importo è quindi rimodulato al ribasso in caso di diversa composizione familiare, sempre facendo riferimento agli indici di equivalenza ISEE.
Anche sotto tale aspetto, l’istituto genera non poche perplessità: a parte situazioni davvero estreme, di cui sarebbe interessante conoscere l’esatto numero, l’importo erogato si ridurrà ad una “mancia” di importo oltremodo esiguo. L’erogazione è inoltre corrisposta per un periodo massimo di dodici mesi.
A fronte dell’erogazione del reddito di dignità, il beneficiario è obbligato alla sottoscrizione di un “patto individuale”, con il quale accetta «uno specifico percorso di tirocinio per l’inserimento socio-lavorativo per la propria attivazione». Tale patto è esteso a tutti i componenti del nucleo familiare del beneficiario. Il percorso di tirocinio viene effettuato presso i soggetti che abbiano effettuato apposita richiesta, i quali devono indicare «il fabbisogno di accesso ad opportunità formative per accrescere le capacità professionali delle persone e il pronostico di occupabilità dei percorsi da attivare».
Il rischio che pare di vedere è che, in realtà, l’erogazione del reddito di dignità si trasformi in nulla più che una erogazione in favore delle imprese che accederanno al programma di tirocini, le quali potranno usufruire di manodopera praticamente gratuita per un periodo di dodici mesi per ciascun lavoratore, il quale verrà retribuito con la “mancia” del reddito di dignità, peraltro con soldi pubblici. Discutibile è poi la previsione di vincolare al “patto individuale” l’intero nucleo familiare del richiedente, scelta che rievoca pagine non proprio memorabili della nostra storia.
Insomma, l’erogazione promessa, anche per quelle pochissime persone che ne potranno usufruire nella misura massima, appare davvero lontana dal poter garantire lo “sviluppo equo e duraturo”, la tutela della dignità che si ripromette e la creazione di condizioni che consentano alle persone in condizioni di povertà di “camminare con le proprie gambe”.
Infine, un particolare curioso: l’art. 10 della legge regionale prevede che l’erogazione venga sospesa in caso di condizioni di malattia che si protraggano oltre i dieci giorni. Alla faccia del sostegno alle situazioni di disagio…