La decisione di Matteo Renzi di scrivere insieme a Silvio Berlusconi la nuova legge elettorale ricorda l’improvvida scelta del giovane apprendista stregone, che finì col rimanere soggiogato dalle forze che provava ad evocare. Il sistema scaturito da quell’intesa impone al quadro politico italiano una forzatura di enorme portata: sulla base dell’elevatissima soglia di sbarramento (12% per le coalizioni, 5% per le liste all’interno delle coalizioni e 8% per quelle che corrono da sole) pochissime forze entrerebbero in Parlamento; inoltre, il meccanismo del ballottaggio – che scatterebbe qualora nessuno raggiungesse il 35% – imporrebbe una dinamica bipartitica che non ha precedenti nella storia del nostro paese.
Stando al quadro attuale, di fatto la corsa sarebbe circoscritta ai due principali partiti, PD e Forza Italia (che probabilmente assorbirebbero – o riassorbirebbero, come nel caso del Nuovo Centro Destra – le forze politiche “satellite”), con l’eventuale incognita “Cinque Stelle”. C’è a questo punto da chiedersi: questa situazione conviene a Renzi? L’uomo, convinto di incarnare il “vincente” dei telefilm americani sui quali si è formato, probabilmente non fa i conti con una realtà in rapido movimento.
Di fronte a sé Renzi non ha più il Berlusconi patinato dei primi anni ’90, il brillante imprenditore che prometteva opulenza a piene mani, né il Premier chiacchierato di un paio di anni fa, che poco prima di cadere affannosamente cercava ancora di negare la crisi con la favola dei ristoranti pieni. Il Berlusconi di oggi è pienamente immerso nella crisi: la evoca quando può, non risparmia stoccate alla leadership europea e si lascia sfuggire volentieri critiche all’Euro. Ha sbagliato sin dal primo momento chi ha creduto che la rottura dei “falchi” con il governo, la riesumazione di Forza Italia e la sua fuoriuscita dalla maggioranza fossero reazioni nervose all’espulsione di Berlusconi dal Senato. Si è trattato invece di decisioni politiche maturate all’interno di un processo di ricollocazione della destra berlusconiana nel nuovo quadro sociale determinato dagli sconvolgimenti degli ultimi anni. Piaccia o meno, Berlusconi è in grado di tenere il polso di una parte significativa della società italiana: quel grumo di piccoli e piccolissimi interessi che da sempre rappresentano il punto di riferimento della sua azione politica. Si può avere rapidamente un’idea del “peso” di queste componenti ricordando che nel nostro paese il 95% delle imprese conta meno di dieci dipendenti. Oggi quei gruppi sono in estrema difficoltà: di fronte alla morsa fra crollo della domanda e aumento di tasse e tariffe, neanche più l’evasione fiscale (ancora ampiamente praticata) è sufficiente ai nani del capitalismo italiano per restare a galla. Chi può delocalizza; chi non può annaspa e infine fallisce. Ne consegue una radicalizzazione delle posizioni politiche, che si è manifestata già alle ultime elezioni con il consenso che una parte di questi settori ha espresso nei confronti del Movimento Cinque Stelle. Ora, prospettare a questi gruppi l’uscita dall’Euro, cioè il recupero di margini di competitività attraverso la svalutazione del cambio, diventerà probabilmente uno dei mantra del “nuovo” Berlusconi man mano che il tendenziale, progressivo peggioramento della situazione economica porterà ben oltre la soglia dell’esasperazione quei soggetti. Un Berlusconi di questo tipo potrebbe conquistare consensi nello stesso campo di Grillo, recuperando all’ovile del centrodestra quei piccoli imprenditori, artigiani e partite IVA che alle ultime elezioni hanno scelto Cinque Stelle.
Cosa può opporre Renzi a questa prospettiva? La fiducia nella “ripresina”? Un po’ troppo poco. La prospettiva di riforme che abbattano il costo del lavoro? Per ottenere effetti rilevanti in termini di competitività su questo versante sarebbe necessaria – come segnalato nel 2006 dal capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard – una riduzione nell’ordine del 20/30% dei salari nominali (ipotesi definita “esotica” dallo stesso Blanchard). Come dire l’impoverimento di milioni di donne e di uomini. E’ questa la strada che il segretario del PD intende percorrere attraverso il suo (ancora estremamente vago) “Jobs Act”? Aspettiamo per giudicare; nel frattempo si segnala che sul tema cruciale dell’Unione Europea e dell’Euro Renzi non si è differenziato minimamente dalla linea “europeista” dei suoi predecessori; anzi, in piena campagna congressuale ha chiesto (e ottenuto) la benedizione della Merkel in persona.
Il rischio al quale sindaco di Firenze si sta esponendo (e, soprattutto, sta esponendo il paese) è enorme. Non gli basterà tutta la sua verve comica per sottrarsi al fuoco di fila di Berlusconi e dei suoi che, sfruttando l’agevole tribuna dell’opposizione e le faide interne al PD, cercheranno di presentare quest’ultimo come il “partito degli Eurocrati”, obbedienti ai diktat della Merkel e di Draghi. La nuova legge elettorale a quel punto potrebbe rivelarsi un clamoroso boomerang: in base al principio “chi vince piglia tutto” anche un solo voto basterebbe per consegnare il paese nelle mani di una destra di tipo nuovo, molto più vicina alle istanze di Marine Le Pen che allo stile compassato della Cancelliera.
Matteo Renzi, da concorrente de “La ruota della fortuna”, ha già dimostrato di avere propensione al rischio, e lo sta ribadendo anche nella gestione del partito. Forse però dimentica che l’interlocutore che si è scelto è l’erede diretto di un tale che qualcuno definì “un bravo giocatore di poker”.