Il Tavolo tra governo e amministrazioni locali tenutosi lunedì a Taranto ha prodotto la bozza del Contratto istituzionale di sviluppo (Cis), che il Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) dovrà ratificare nelle prossime settimane. Si prevede uno stanziamento complessivo di circa 800 milioni di Euro per le opere di ampliamento del porto mercantile, per la bonifica delle aree contaminate, per il risanamento di Città Vecchia e Tamburi per la realizzazione di un nuovo ospedale (cosiddetto “San Cataldo”); inoltre, si prospettano interventi (ancora non definiti) a sostegno del Museo e per la (parziale) conversione dell’Arsenale a sito di archeologia industriale. Qualcuno giustamente ha rilevato che una parte significativa degli investimenti stimati è costituita da vecchi impegni di spesa mai stanziati. Poco male, verrebbe da dire: finalmente il governo decide di sbloccare cifre importanti che, riversate su un’economia allo stremo come quella jonica, sortiranno l’effetto della proverbiale “manna dal cielo”.
Nel dibattito in corso tuttavia si trascura forse la questione più importante: quale strategia di sviluppo c’è dietro le misure del Cis? L’assenza di una visione strategica nell’attività delle istituzioni locali è stata denunciata di recente dal presidente dell’Ordine degli Architetti, Massimo Prontera (v. “Taranto Buonasera”, 10/10/2015). Correttamente Prontera ha rilevato che Taranto si trova di fronte a uno snodo cruciale della sua storia: un modello di sviluppo, basato sulla prevalenza di produzioni industriali “intensive”, si è esaurito forse per sempre, mentre non se ne intravede uno in grado di sostituirlo. Lo sbocco naturale di questa situazione è la decadenza che la città sta attraversando.
Alla luce di questa constatazione, è lecito domandarsi: il Cis nella sua interezza è in grado di promuovere un’inversione di rotta? Perché ciò avvenga, gli investimenti prospettati dovrebbero attivare un meccanismo di sviluppo in grado di autosostenersi. E’ legittimo nutrire qualche dubbio su tale aspettativa.
Si prenda il porto. La Taranto Container Terminal (Tct) è stata posta ormai in liquidazione, e ancora non si intravedono nuovi possibili gestori. Intanto i principali operatori globali (cinesi, in testa) hanno individuato il porto del Pireo come principale approdo per le esportazioni dirette verso l’Europa meridionale. Situazione che ha di fatto declassato gli scali italiani a una portata sub-regionale. E’ in questo contesto che va definendosi una riorganizzazione del sistema portuale nazionale che vede giocoforza lo scalo jonico in posizione marginale – dati i clamorosi ritardi con cui si realizzeranno i lavori di ampliamento.
Ma anche ammesso che con le opere previste il nuovo porto riesca a decollare, non è detto che esso avrà un impatto positivo sul contesto economico locale. Ciò a causa dello stato comatoso in cui versa il sistema produttivo della provincia jonica. Il porto infatti può trasformarsi in stimolo allo sviluppo, attraverso la via dell’export, nella misura in cui il retroterra imprenditoriale mostri potenzialità significative; viceversa, esponendo le imprese locali alla concorrenza dei paesi emergenti, quell’infrastruttura rischia di rivelarsi un’ulteriore zavorra. Perché il porto rappresenti davvero un’opportunità sarebbe dunque necessaria una politica di sviluppo complessiva, che riorganizzi su basi più solide il sistema d’impresa locale. A questa prospettiva nel Cis non si fa cenno, e tantomeno essa è in cima alle priorità della politica economica del governo Renzi. Si corre dunque il rischio che il Cis finanzi una grande opera del tutto inutile.
Un discorso analogo vale per la bonifica. L’immane opera che si prospetta su questo versante richiede un intreccio quanto mai stretto di ricerca e competenze tecniche altamente specializzate. La collaborazione che il Commissario per la bonifica ha stabilito con il Politecnico di Bari lascia ben sperare in merito alla costituzione di un nucleo di ricerca specializzato che operi sul territorio in collaborazione con altri centri. Quello che tuttavia manca sono le imprese in grado di valorizzare i risultati della ricerca. Non è un caso che su questo frangente i primi progetti di bonifica siano giunti da grandi imprese nazionali. Rischia dunque di riprodursi uno schema ben noto alla storia economica locale: la divisione del lavoro fra grandi imprese esterne e piccole e medie imprese autoctone, con le prime impegnate nella progettazione generale e nei lavori più sofisticati – realizzando la maggior parte del valore – e le seconde relegate alle mansioni meno specializzate – e remunerative. Le conoscenze acquisite verrebbero così capitalizzate quasi esclusivamente da operatori esterni. Il sistema produttivo locale perderebbe l’opportunità di arricchirsi del contributo dell’attività di ricerca – fondamentale per l’innovazione e la competitività. Anche in questo caso dunque l’esigenza di una politica di coordinamento, orientamento e sostegno del tessuto produttivo locale dovrebbe essere considerata condizione preliminare e imprescindibile per un processo di sviluppo. Ma tant’è.
Molto più opaca è invece la partita che si gioca sul risanamento di Città Vecchia. In questo caso il finanziamento del Cis dovrebbe provvedere al riassetto strutturale delle aree più fragili, in funzione del rilancio turistico dell’Isola. Non è ben chiaro tuttavia come si interverrà sugli stabili e quale modalità di valorizzazione si vorrà adottare. Inoltre, l’intervento sul centro storico sembra del tutto sconnesso dalla programmazione urbanistica generale (si ricorda che è in via di definizione il nuovo Pug), che intanto procede in assenza di un qualsiasi dibattito pubblico. Si tratta, come è evidente, di questioni tutt’altro che secondarie, dal momento che ci si propone di ridisegnare e rifunzionalizzare un’area caratterizzata da una struttura quanto mai stratificata e complessa. In assenza di vincoli precisi – e di una progettualità generale – si corre il rischio di dare adito a operazioni speculative cui già si è assistito nel recente passato (si veda la voce “Urban”). Nondimeno, come già si è segnalato, lo sviluppo turistico rischia di non modificare nella sostanza la degenerazione in atto nel tessuto sociale della Città Vecchia. Un progetto di risanamento reale di quella zona non può prescindere da questo dato; la rivitalizzazione del contesto economico dell’Isola deve porsi come obiettivo la costruzione di un’alternativa concreta al mercato dello spaccio. Di tutto questo non c’è traccia nel Cis e nei lavori della Giunta comunale. Come del tutto aleatorie appaiono al momento le prospettive di valorizzazione dell’Arsenale come sito di archeologia industriale.
In conclusione, alla base delle linee d’azione contenute nel Cis è arduo rintracciare una strategia di fondo. In particolare, manca un’organica politica di sviluppo in grado di determinare modificazioni strutturali del contesto economico locale. In tali circostanze gli effetti positivi generati dagli interventi rischiano di restare circoscritti al breve periodo, cioè alla realizzazione delle opere principali, e di non contribuire in maniera significativa alla ristrutturazione del tessuto produttivo jonico. A ben vedere, si tratta di un rischio che allude a dinamiche che il nostro territorio ha già sperimentato in diversi momenti. A conclusione di ogni fase di espansione della capacità produttiva, in passato si è sempre manifestato un problema di “disoccupazione di ritorno” e una sorta di “delusione” per i mancati effetti indotti degli interventi esterni sul tessuto produttivo locale. Tale aspettativa è tanto più valida oggi, dal momento che ci troviamo a discutere non già di investimenti direttamente produttivi (come furono l’Arsenale, i Cantieri navali, l’Italsider, la Shell, la Cementir ecc.), bensì di opere infrastrutturali, il cui ritorno – in termini di remunerazione e di occupazione – è subordinato a condizioni attualmente carenti – anzitutto un’adeguata organizzazione del capitale -, la cui creazione non è fra gli obiettivi del Cis.
Verrebbe da chiedersi a questo punto… “a chi giova” questo insieme di interventi? Esso risponde senz’altro a un’esigenza di consenso avvertita dal governo a fronte del salvataggio di Ilva. In sostanza, si dà adito a una logica risarcitoria: la società locale accetta un’ulteriore dilazione del risanamento del siderurgico (e domani chissà, persino il suo smembramento…) in cambio di una paccata di milioni. Ma chi sono i reali beneficiari di questo scambio neanche tanto implicito? Coloro i quali si aggiudicheranno gli appalti di realizzazione delle opere in questione, in primo luogo. Insieme a quelli che si aggiudicheranno gli eventuali stabili da ristrutturare con fondi pubblici in Città Vecchia. La buona vecchia “economia del cemento”, colonna (di sabbia) portante del nostro paese. Per qualche anno torneranno le “vacche grasse”, cui seguiranno gli immancabili piagnistei contro il governo, reo di avere “abbandonato Taranto”. Un film vecchio 120 anni.
Sarà attorno a questo blocco di interessi che si articoleranno gli schieramenti politici, da cui trarranno legittimazione le prossime giunte locali. A queste spetterà ancora una volta il compito di mediare fra i diversi portatori di quegli interessi, tenendo in disparte i possibili elementi di disturbo. Anche questa è una costante della storia tarantina, come ha lucidamente rilevato Pinuccio Stea in una sua recente intervista (v. “Voce del Popolo”, n.5/2015). La sua analisi del “municipalismo” coglie un punto centrale. Per Stea tale atteggiamento, caratteristica del personale politico jonico per una lunga fase, si compone di due elementi: a) l’accettazione di una subalternità fondamentale nei confronti dei poteri che condizionano “dall’alto” il contesto locale; b) il riconoscimento della mediazione con il centro e fra i gruppi di interesse autoctoni come funzione esclusiva dell’azione politica. Il risvolto di quell’atteggiamento è l’incapacità dei dirigenti politici jonici di ambire a una funzione di direzione generale: il quadro complessivo è definito dall’intervento esterno; ai gruppi politici locali non resta che trattare sui margini dell’intervento e organizzare gli equilibri di potere locali nelle pieghe delle condizioni date.
E’ possibile un’alternativa a questo stato di cose? Stea individua una sola parentesi di discontinuità nella storia recente di Taranto: quella prodotta dal protagonismo della classe operaia organizzata negli anni ’70 del Novecento. Fu nel fuoco della cosiddetta “vertenza Taranto” che emerse una visione di sviluppo non più dipendente dalla “monocultura dell’acciaio”. Oggi quel tipo di classe operaia non esiste più, e sarebbe illusorio evocarla come i medium evocano gli spiriti defunti. Esiste però un’ampia miriade di soggettività subalterne, fra le quali si annoverano ormai anche categorie un tempo considerate “privilegiate” (su tutti i giovani professionisti, i piccoli commercianti, gli artigiani ecc.), che poco hanno da guadagnare per effetto degli interventi prospettati dal Cis, e che viceversa avrebbero tutto l’interesse a promuovere un nuovo modello di sviluppo. Organizzare elementi tanto dispersi – dai siderurgici agli operatori della cultura; dai lavoratori dei call center ai giovani avvocati ecc. – o, quanto meno, stimolare in quei gruppi la percezione di un sentire condiviso, è impresa quanto mai ardua. Ma l’alternativa passa necessariamente attraverso questo spiraglio. “Hic Rhodus, hic salta!“