Queste Satire non vanno intese solo col senso moderno del termine. Non sempre la risata da sola accompagna alla riflessione; spesso è più efficace una lacrima. Dedico questa Satira a Gaetano Colella (1973-2011).
L’Idra si erse dalla grotta come un’escrescenza tentacolare e viscida. Spalancò le fauci taglienti ed emise un ululato roboante. Dalla bocca e dalle narici evaporarono nebbie verdognole. Mise fuori la prima zampa, poi l’altra. Gli artigli tagliarono le rocce. Il suo corpo era rotondo e flaccido. Appestò l’aria come il pesce marcio.
Ercole saltellava all’indietro, passando la spada da mano a mano. Le squame del petto erano a pochi passi da lui; sembravano piastre d’acciaio cosparse di grasso. L’Idra tentò di morderlo sulla faccia; evitò le fauci, ma quel fiato pestifero quasi lo soffocò.
La voce del mostro sibilava tra le sue tempie, come un fischio all’orecchio. «Io ti mangio la tesssta, bambino!».
Ancora due morsi. Il collo dell’Idra era elastico e scattava come una frusta. La pelle di leone lo proteggeva dalle zanne. Menò un fendente e segò il collo del mostro. La testa serpentina volò via, gli occhi gialli si spensero, il corpo crollò davanti a lui. La carne marciva ed esalava un odore misto di pesce e sterco; se lo respirava gli sembrava che gli infilassero rasoio su per il naso.
Il cadavere si rianimò. Gli artigli ticchettarono sulla roccia, la coda ondeggiò come quella mutilata di una lucertola. Il corpo flaccido tornò a reggersi sulle zampe e dal moncherino putrido ricrebbero tre teste!
Fendette ancora, le teste cadevano, ma subito ne ricrescevano altre tre per una mozzata. La rabbia e la fame di vendetta muovevano il braccio di Ercole. Il mostro gli aveva portato via già tanto, voleva annientalo una volta per tutte. Ma, per quanto la colpisse, l’Idra si rigenerava.
Ora Ercole aveva davanti un groviglio di viscide gole d’acciaio che emettevano fumi venefici e lo deridevano, lo insultavano, lo minacciavano. Centinaia di voci demoniache rimbombavano nella sua testa. Ercole gridò, gettò la spada e cadde in ginocchio. Sangue gocciolò dal suo naso sul suolo di roccia.
Il mostro lo avvolse con le sue gole. Su Ercole, una cupola di carne putrida eclissò il cielo.
«Ti porterò via dai tuoi. Ucciderò te e poi loro. Io vinco sssempre».
Ercole guardò negli occhi una di quelle facce bestiali e bastarde. Ruggì come il leone di cui indossava la pelle come armatura. Digrignò i denti, intrecciò le dita e contrasse entrambe le mani in un solo pugno. Alzò le braccia e abbatté le mani sul suolo. Una scossa di terremoto. L’Idra stridette, poi una valanga di massi piovve sul mostro e la seppellì, e Ercole sotto di lei.
Le pietre spiaccicavano le teste, i colli, i muscoli gelatinosi. Sangue e polpa nera si dispersero tra le rocce. Un ultimo sibilo e l’Idra spirò, seppellita da tonnellate di pietra. Ercole aprì un varco nella carne putrescente con la spada. Sentiva che se non fosse uscito al più presto, sarebbe morto soffocato. Spinse una roccia: l’aria fresca tornò a solleticargli il viso e la luce del Sole, ora alto nel cielo, illuminò i suoi occhi. Niente più sibili, ma il cinguettio dei passeri.
Era fuori. Tornò verso casa, ma prima diede un’ultima occhiata alle spalle. La montagnola di massi copriva il cadavere deforme.
Aveva vinto lui. Aveva sconfitto l’Idra, forse per sempre.
Il film era arrivato alla scena in cui Hercules si scopre sopravvissuto allo scontro con l’Idra e la folla di tebani esulta e lo porta in trionfo. Fil, l’allena-eroi, esulta e urla «Ce l’hai fatta, ragazzo! Una vittoria schiacciante!». E Ade, il dio della morte, prende fuoco dalla rabbia.
Elisa spense il televisore. Gaetano si era addormentato, nonostante il suo desiderio di rivedere ancora una volta il suo cartone animato preferito. Era stata l’ultima cosa che aveva detto prima che lo addormentassero in sala operatoria. «Poi voglio vedermi Hercules». E, nonostante avesse dormito cinque ore di fila in sala, era di nuovo cascato nel sonno.
Gli girò la testa da destra a sinistra. Le guance, già paffute di loro, erano gonfie come palloncini rosa. Staccò la garza sul cranio pungente e medicò la cicatrice. Sostituì la garza, cambiò la flebo e raccolse in un mazzetto tutti i bigliettini di pronta guarigione che i suoi compagni di scuola gli avevano spedito e che lui aveva letto e riletto, seminandoli intorno a lui tra le lenzuola.
Sul comodino c’era un libro sui miti greci riscritti per i piccoli. Dovevano essere la sua passione. Dopotutto quella appena conclusa doveva essere stata una fatica eroica per lui, degna di Ercole. La seconda fatica in soli cinque anni, dopo quella per venire al mondo. Gli sorrise, gli carezzò la testolina pelata, spense la luce e lo lasciò riposare.