Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare
( Lucio Anneo Seneca)
“La truffa del debito pubblico“, edito da Derive Approdi, è l’ultimo lavoro di Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista. Si tratta di un libro che ha il grande pregio di chiarire in modo semplice le dinamiche della formazione del debito pubblico italiano – considerato dall’opinione pubblica, a torto, il problema dei problemi del nostro paese – e i disastri che il suo aumento ha causato sulla pelle dei ceti medio-bassi. Questo volume da 153 pagine spiega per quale motivo, a parere dell’autore, la dilatazione del debito pubblico nel nostro paese sia stata scientificamente perseguita per utilizzare la minaccia del “fallimento” dell’Italia come una clava da abbattere sulle teste dei cittadini, facendo loro digerire politiche di austerità e tasse crescenti a partire dai primi anni ottanta.
L’autore si ripropone di scardinare i numerosi luoghi comuni che la vulgata corrente propina quotidianamente: “abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi”, “siamo cicale dissipatrici”, “abbiamo distrutto il futuro dei nostri figli consumando troppo”, “lavoriamo troppo poco”. Attraverso la ricostruzione dei fatti, servendosi di tabelle e grafici facilmente reperibili e di immediata fruibilità, Ferrero risponde anche alla domanda che ci si pone spontaneamente : “chi e perché avrebbe favorito l’incremento del debito pubblico italiano permettendo in tal modo, con la scusa di ridurlo, l’erosione continua del Welfare State e della Sanità pubblica?”. Proprio quei poteri forti – dice Ferrero – che Renzi dichiara di voler combattere e del quale invece è il più servizievole dei camerieri.
La ricostruzione di Ferrero – perché di un vero e proprio racconto illustrato si tratta – comincia con gli scroscianti applausi che salutavano il nuovo premier Mario Monti alla fine del 2011: una vera e propria standing ovation tributata al professore bocconiano da tutto l’arco istituzionale italiano dopo un discorso di insediamento che attaccava pesantemente proprio i politici che lo avevano eletto; in quella occasione persino Grillo, con una lettera del 24 novembre 2011, richiedeva un amichevole incontro a Monti, dispensandogli consigli per governare. Come ben si sa, Monti è la rappresentazione vivente dell’ “amara medicina” che il malato Italia – colpevole di aver dissipato enormi ricchezze a causa di corruzione, sprechi e spesa pubblica eccessiva – avrebbe dovuto prendere e che tutte le forze politiche in campo consideravano la cura necessaria per guarire, ad eccezione dei piccoli partitini della cosiddetta “sinistra estrema”. Occorre segnalare che Monti, autorevole rappresentante delle oligarchie finanziarie che hanno assorbito gran parte dei salvataggi pubblici interveuti dal 2007 ad oggi, ha recentemente ammesso sul Financial Times che la spesa pubblica è necessaria per produrre reddito e che, quindi, le sue stesse ricette economiche – quelle che l’Italia sta ancora gustando con Renzi – producevano cibi avariati.
La spesa per gli interessi sul debito pubblico (spesa pubblica improduttiva) ha permesso nel tempo l’arricchimento delle caste finanziarie e delle classi più ricche (in grado di comprare quei titoli di Stato sui quali incassare gli interessi pagati dallo Stato medesimo), ma queste somme di denaro sono state versate decurtando progressivamente la spesa pubblica per investimenti, pensioni e sanità – che Ferrero, attraverso dati ufficiali, dimostra essere più bassa della media europea e certamente inferiore a quella di paesi ritenuti “parsimoniosi” e “virtuosi”, come la Germania. Si è trattato di un furto, insomma, di una redistribuzione al contrario che Renzi continua a favorire con la definitiva vendita sul mercato di servizi e beni pubblici essenziali. Altro che lotta ai “poteri forti”: gli italiani sono l’unico popolo al mondo ad aver finanziato “avanzi primari” (cioè surplus di entrate statali sulle uscite al netto degli interessi sul debito) dal 1992 – quando, dopo aver attribuito agli alti salari dei lavoratori l’alta inflazione, si decise la svalutazione della Lira abbattendo in una sola notte il valore reale degli stipendi di parecchi punti percentuali, mentre si inaugurava la stagione delle manovre finanziarie “lacrime e sangue”. Gli italiani si cimentano da allora in una fatica di Sisifo. Ed è forte il sospetto che il Moloch del debito pubblico sia lo strumento attraverso cui sdoganare definitivamente la necessità del ritorno a pratiche lavorative dell’800.
Se, dunque, la spesa pubblica per le politiche sociali non è così alta, dice Ferrero, allora è completamente (e volutamente) sballato il presupposto sul quale le politiche di austerità sono basate. La conferma di ciò è fornita dal rapporto debito/PIL che continua ad aumentare – mentre produzione industriale, consumi e lo stesso PIL crollano sempre più rovinosamente. La cosa assurda è che i vincoli europei siglati dall’Italia per responsabilità comune delle “larghe intese” (Lega inclusa) continuano ad imporci ricette che aumenteranno il debito, mentre il vero problema, cioè l’alto valore dei tassi reali sul debito, non viene minimamente affrontato. In Parlamento volano quindi parolacce e minacce su aspetti economici marginali, ma il grande problema – cioè i vincoli europei – non viene messi in discussione, se non formalmente o a parole.
Veniamo così alla domanda di fondo del libro: cosa ha prodotto l’esplosione del debito pubblico in Italia? Fino al 1981 il debito pubblico è sempre rimasto sotto il 60% del PIL, quindi il suo aumento “non è il frutto delle conquiste operaie o dei salari alti: fin quando i comunisti ed il sindacato sono stati forti il debito è stato sotto il 60% del Pil e non costituiva un problema”. L’esplosione del debito pubblico, impropriamente ascritto al livello (pure molto alto) di corruzione e sprechi del nostro paese, è essenzialmente dovuto alla scelta di lasciar stabilire il prezzo di emissione – cioè il tasso di interesse – dei titoli dal mercato. Con un atto amministrativo degno degli attuali decreti legge, il 12 Febbraio 1981 Beniamino Andreatta (allora Ministro del Tesoro) e Carlo Azeglio Ciampi (allora Governatore di Bankitalia) decisero l’indipendenza della Banca d’Italia dal Tesoro. Se, fino ad allora, il Tesoro decideva con Banca d’Italia il tasso di interesse dei Bot che finanziavano la spesa pubblica, e l’eventuale invenduto d’asta era acquistato dalla Banca d’Italia al tasso concordato, da quel momento Banca d’Italia non fu più tenuta ad acquistare i Bot non comprati da privati o da altre istituzioni pubbliche. Ciò determinò due conseguenze gravissime: 1) i titoli non potevano più essere venduti tutti ad un tasso certo (quasi sempre inferiore al tasso di inflazione, cioè ad un tasso inferiore all’aumento del livello generale dei prezzi); 2) i liberi acquirenti – banche e grandi investitori – potevano speculare sugli interessi del debito pubblico ritardando gli acquisti e aspettando quindi che l’interesse salisse.
Fino al 12 Febbraio del 1981 i tassi dei Bot erano stati costantemente inferiori all’aumento del livello generale dei prezzi (cioè all’inflazione); ciò significa che il governo italiano si finanziava a tassi reali negativi. In pratica, l’interesse che lo Stato pagava ai percettori del debito veniva neutralizzato dal contemporaneo aumento dei prezzi; in questo modo, il governo impediva che il debito si gonfiasse a causa degli interessi. Dal 1981, di contro, i tassi d’interesse sui Bot schizzarono alle stelle e ciò garantì due cose: 1) tassi di interesse reali positivi – cioè superiori al tasso di inflazione, con un conseguente onere reale per lo Stato -; 2) un guadagno reale medio del 4,2% all’anno – cioè la differenza media fra tasso d’interesse e tasso d’inflazione – dal 1981 al 2007 per gli speculatori che hanno acquistato i titoli di stato italiani. Si è trattato di una enorme redistribuzione di soldi dello Stato da pensioni, sanità e investimenti pubblici a rendite garantite per chi poteva comprare questi titoli. Per mezzo di intuitive tabelle desunte da fonti ufficiali, Ferrero dimostra che almeno metà dell’attuale debito pubblico italiano, circa 1000 miliardi di Euro, è “frutto di truffa legalizzata” cominciata durante il governo Craxi del 1981, poi continuata a livello europeo con il Trattato di Maastricht, il Trattato di Lisbona, Fiscal Compact, Dual Pack e pareggio di bilancio in Costituzione, tutte misure votate dalle larghe intese parlamentari (inclusa la Lega che oggi sbraita contro l’Euro).
Il “debito pubblico”, assurto a peccato originale della popolazione italiana, è stato poi utilizzato per distruggere la democrazia (espressione massima e certamente costosa della collettività) e per imporre politiche deflattive che, come ormai la quotidianità insegna, servono essenzialmente a spezzare l’unità delle classi lavoratrici mettendo gli uni contro gli altri in una lotta per la vita al ribasso. La “creazione di emergenze” è, insomma, il corrispettivo economico della “strategia della tensione”; ultimamente si sta procedendo all’atto finale della dismissione dello Stato: la vendita a prezzi da saldo dei “gioielli di famiglia”, il tutto nel nome della “semplificazione” e del reperimento di miliardi per tagliare, neanche a dirlo, il debito.
Dopo aver suggerito di “decolonizzare i cervelli” da 30 anni di informazione mainstream, Ferrero indica la strada da battere per risalire la china: combattere il “capitalismo neoliberista, che in Europa è stato istituzionalizzato e codificato nei trattati europei ed è all’origine della disastrosa situazione in cui viviamo”. Questa ideologia pratica, che naturalizza il mercato e impone il principio della concorrenza a tutte le relazioni sociali, non definisce il presunto “stato di natura dell’uomo”, essere sociale che tendenzialmente vivrebbe per “stare insieme” e condividere esperienze ed emozioni. Non a caso il sanguinario generale cileno Pinochet applicò i dettami economici del liberismo di Friedman (di cui era intimo amico) con la repressione. Partendo da questo presupposto, allora, è chiaro che L’Europa delle banche e dei “poteri forti” (ai quali Renzi si inchina più di Monti o Letta), va trasformata nell’Europa dei popoli riconvertendo una banca centrale (la BCE) che presta soldi alle altre banche allo 0,05%, in una banca che presti soldi direttamente agli Stati allo stesso tasso. Se così fosse, l’Italia pagherebbe 3 miliardi all’anno di interessi sul debito e non 80, come accade oggi. Inoltre si dovrebbe perseguire in via istituzionale la piena occupazione dei popoli europei ed istituire una tassa europea sulle grandi ricchezze per ridurre le crescenti disuguaglianze tra ricchi e poveri all’interno di ogni paese – disuguaglianze che, come ha dimostrato Piketty nel suo ultimo pubblicizzatissimo libro, contribuiscono a determinare il rallentamento della crescita economica. Le parole d’ordine di Ferrero sono infine: riconversione ambientale e sociale dell’economia e delle produzioni industriali ed agricole; disobbedienza ai trattati; sviluppo su scala europea di un welfare che garantisca salute e pensioni a tutti i cittadini; costruzione di un movimento europeo contro l’austerità. Un programma ambizioso ma inevitabile per provare a contrastare l’offensiva che il capitale finanziario ha scatenato, con successo, contro le nostre vite.