È partita da qualche giorno la campagna del Taranto Social Film, un progetto che mira a raccontare la città jonica grazie ai contribuiti video inviati dai cittadini. L’avvento del digitale e delle tecnologie portatili permette ormai a chiunque di realizzare un filmato, anche solo utilizzando il proprio telefono cellulare, e dunque la sfida è quella di restituire l’immagine di un luogo così come percepita direttamente da chi lo abita, attraverso una nuova modalità di racconto.
Se vogliamo cercare dei referenti ufficiali possiamo citare i lungometraggi Life in a Day e Italy in a Day (realizzati con la supervisione di registi affermati come Ridley Scott e Gabriele Salvatores), qui ripensati però attraverso un’esperienza che parte dal basso, e che si va a inserire fra le numerose iniziative che testimoniano il fermento culturale di una città alla ricerca di un’identità alternativa rispetto a quella promossa dal suo passato e dalle cronache contemporanee.
Promosso dalla neonata Associazione Culturale “Fuori Fuoco”, il Taranto Social Film nasce da un’idea di Valeria Pesare, direttrice artistica del progetto e videomaker locale, nata a Sava e tornata in Puglia dopo aver acquisito la necessaria esperienza a Roma nell’ambito della comunicazione sul web, realizzando web-series, spot e videoclip. Abbiamo parlato del progetto con lei e con il grafico Enrico Saponaro.
Come nasce l’idea del Taranto Social Film?
Valeria Pesare: Nasce qualche anno fa, quando mi sono innamorata dell’esperienza compiuta da Ridley Scott con il suo Life in a Day. La mia formazione non è stata in televisione o al cinema, ho lavorato esclusivamente sul web e quindi mi ha subito interessato quel metodo di produzione. Inoltre ho amato l’idea di creare un racconto collettivo, formato un po’ dalle voci di tutti, e di ripensarlo in maniera particolare per questo territorio, che rappresenta una realtà complessa e stratificata, dove tante storie, per l’appunto, si uniscono. L’unico modo per rendere veramente merito e creare una vera immagine di questa terra secondo me è attraverso questa modalità di produzione.
Ora la stiamo mettendo in pratica, grazie al lavoro svolto insieme all’Associazione Culturale “Fuori Fuoco”, che ci aiuta nelle fasi di coordinamento e per il montaggio finale. La regia sarà eseguita da un regista pugliese, mentre le musiche saranno create da giovani compositori del nostro territorio.
Quale sarà la traccia portante del racconto?
Valeria Pesare: Per creare un’immagine unitaria della città, l’idea è di unire tre sguardi: quello degli abitanti della città (i tarantini che la vivono); quello di chi, per vari motivi, l’ha dovuta o voluta abbandonare e ora vive fuori; e infine quello di chi vede Taranto per la prima volta e ha quindi una prospettiva più fresca. Tutto questo senza dimenticare chi è stato fuori e ora è tornato a Taranto.
In questo modo speriamo di dare forma a un racconto trasversale, che coinvolga tanto il filmmaker professionista, quanto l’uomo della strada che filma con il suo cellulare. Tutti possono partecipare, senza distinzioni fra chi filma di mestiere e chi per puro piacere.
Le riprese devono essere necessariamente fatte a Taranto?
Valeria Pesare: Sì, ma chi ha abbandonato la città può comunque partecipare, mandandoci un’intervista o una video-lettera in cui ci racconta cos’è Taranto per lui. In Italy in a Day c’è un medico italiano che lavora all’estero (in Africa mi pare) e il suo racconto è stato usato come leitmotiv dell’intero film.
L’idea mi pare sia però differente da quella del Life in a Day, perché investe un diverso tipo di immaginario, sbaglio?
Valeria Pesare: È così, perché l’obiettivo di quel progetto era raccontare una giornata nel mondo – o di un italiano se consideriamo anche la versione nostrana, Italy in a Day, di Gabriele Salvatores. Qui invece il punto è capire “cosa c’è sotto la polvere” in questa città. Quindi si punta a qualcosa che non si esaurisca in 24 ore, ma che si sviluppi lungo diverse stagioni e paesaggi, in modo da creare un’immagine che racconti la vita vera in modo più completo. La differenza è sostanziale.
E quale dovrebbe essere secondo voi il tipo di immagine della città che il progetto dovrebbe togliere “dalla polvere”?
Enrico Saponaro: Ci interessa che i partecipanti ci dicano cos’è Taranto per loro, quali sono gli aspetti positivi al netto di tutto quello che è l’immaginario negativo riconosciuto all’esterno, come l’inquinamento provocato dai fumi dell’Ilva, la cattiva gestione della città da parte della politica o gli atti intimidatori della malavita. Questo perché, magari, alle spalle dei problemi citati si nascondono, operano e vivono tante realtà propositive, che esistono e resistono quotidianamente, con le loro difficoltà a emergere, a essere raccontate e probabilmente anche a raccontarsi. E’ chiaro che, per un problema di comunicazione, gli aspetti negativi attirano di più l’attenzione dei media, e queste dinamiche non fanno altro che coprire ulteriormente i fermenti positivi. Chiaramente, date le dimensioni di una città come Taranto, già di per sé esiste a monte una difficoltà di base a viversi: se poi consideriamo che parliamo anche di una realtà a multi-strati, sia a livello geografico che sociale, dove vari tipi di persone sono quasi costrette a convivere, questo amplifica le conflittualità.
Valeria Pesare: È sufficiente fare una ricerca su Google per notare che le prime quattro pagine su Taranto sono composte da notizie riguardanti l’Ilva o la cronaca nera, il che è un problema. Noi non miriamo a creare un brand o a fare marketing territoriale, vogliamo lasciare emergere quello che non si conosce, anche per una presa di coscienza da parte dei cittadini stessi. Inoltre, negli ultimi cinquant’anni Taranto ha avuto un boom abitativo: molta gente è arrivata da tante parti del Sud Italia, si è stabilita qui, ma ha creato i propri legami solo all’interno dell’Ilva, e questo ha cambiato l’identità della città. Da un lato sono rimasti i tarantini e dall’altra gli immigrati che non hanno mai vissuto questa città come propria.
Enrico Saponaro: La ricaduta sociale provocata dall’Ilva va comunque al di là della sola Taranto, perché nella fabbrica lavora anche gente che vive a 60 km da qui. E questo ha prodotto ramificazioni a livello civile e politico: Francavilla, che è il luogo da cui provengo, per generazioni ha visto le elezioni politiche locali condotte sulla base dell’offerta del posto di lavoro all’Ilva. L’oggetto del voto di scambio era questo. Da persona coinvolta nel progetto, questa è la mia percezione dei fenomeni che hanno caratterizzato la città nel tempo.
Le implicazioni sollevate dal progetto sono dunque parecchie e affondano direttamente nella storia e nel ruolo della città.
Valeria Pesare: Di fatto Taranto non ha mai svolto nemmeno il suo ruolo di capoluogo di provincia, ma, allo stesso tempo, ha avuto la capacità di fagocitare tutto quello che veniva dalla terra. L’effetto di questa dinamica è che abbiamo avuto le campagne completamente abbandonate, con i contadini che nel sentire comune erano percepiti come “i cafoni”, a tutto vantaggio dell’operaio dell’Ilva, una posizione che era vista come più prestigiosa. L’emancipazione, di fatto, è passata per l’Ilva. Queste dinamiche hanno fatto sì che oggi non abbiamo un’imprenditorialità agricola ramificata, non si è sviluppata una capacità imprenditoriale in nessun settore e i grandi soggetti come l’Ilva e l’Arsenale Militare hanno fagocitato la capacità quasi di pensare a possibili alternative.
Enrico Saponaro: Il risultato a oggi è che ci sono una città, una provincia e in generale un territorio che va anche al di là della stessa, che di fatto è ostaggio dell’andamento di realtà come l’Ilva. E’ chiaro che possiamo dare la colpa a una assenza di lungimiranza circa le scelte fatte 50 anni fa, ma questo alibi regge fino a un certo punto: resta il fatto che non si è creato nulla. Poi sicuramente ci sono generazioni come quelle dei nostri genitori che grazie al lavoro all’Ilva hanno potuto avere una casa e anche una villa a mare: paradossalmente c’è stato anche un avanzamento sociale, un passaggio oltre la classe proletaria (che per definizione è quella operaia), che si è emancipata oltre se stessa, diventando ceto medio. E’ un problema complesso e di non facile risoluzione.
Valeria Pesare: È su questa base, comunque, che nasce il Social Film, per raccontare quello che si è sviluppato dopo: i piccoli esperimenti, i gruppi di resistenza che hanno provato a creare qualcosa di diverso, soprattutto nell’ambito della cultura, da noi sempre snobbata.
In effetti la città attraversa oggi un momento di grande fermento culturale, ma sempre veicolato dal basso perché il livello istituzionale resta sordo a qualsiasi stimolo.
Enrico Saponaro: Le colpe delle amministrazioni sono palesi, ma noi vogliamo anche raccontare che c’è chi vuole andare oltre l’Ilva: il fatto che siano i cittadini stessi di Taranto credo abbia molto valore.
Valeria Pesare: La scommessa è anche quella di essere stupiti. Il Taranto Social Film funzionerà se i cittadini crederanno che è possibile un’altra immagine della città. La cosa interessante e anche divertente (al di là di quello che ci possiamo aspettare) è che tutto dipende da loro.
Ma secondo voi è possibile creare un modello soltanto dal basso o a un certo punto deve subentrare un livello istituzionale che si faccia carico della richiesta di cambiamento?
Valeria Pesare: Sicuramente i cambiamenti avvengono attraverso l’unione delle parti: in questo momento tutti i cittadini di Taranto hanno più consapevolezza della posta in gioco, anche i dirigenti aziendali e amministrativi, e già questo è un punto a favore. Gli esempi che si può fare qualcos’altro partendo dal basso non mancano, come quello di Domus Armenorum, solo per citarne uno. È la chiesetta degli armeni in Città Vecchia, che era completamente abbandonata e che la gente del vicinato ha iniziato a gestire autonomamente. Da quell’esperienza è nata un’associazione che ora prova a fare impresa, attraverso le guide turistiche. Si tratta quindi di un turismo non incentrato sul mero ritorno economico di chi spera di guadagnare dalle attività commerciali collaterali, ma è un qualcosa animato da uno spirito più profondo e culturale. Sono cose che succedono, economicamente sostenibili e stanno andando avanti. Queste piccole realtà dimostrano che forse la strada è percorribile.
Come state portando avanti la comunicazione?
Valeria Pesare: Al momento sono attivi i canali ufficiali: la pagina Facebook e il blog. La comunicazione sul blog, in particolare, coinvolgerà varie utenze attraverso una serie di post mirati. Abbiamo iniziato con quelli per i professionisti perché sapevamo che sarebbero stati i primi a essere attirati dal progetto. Nei prossimi giorni partirà tutto il resto.
Il 16 Marzo sarà la volta della conferenza stampa, al Cinema Bellarmino, cui seguiranno altre presentazioni del progetto in luoghi simbolo, come l’Area Off Topic delle Officine Tarantine, la zona Archeo Tower, la Città Vecchia e stiamo cercando di capire anche come muoverci a Paolo VI. Poi faremo comunicazione anche nelle scuole per coinvolgere i più giovani.Enrico Saponaro: Il tutto dovrà naturalmente essere compatibile anche con la natura completamente spontanea oltre che no budget del progetto. Quindi pensiamo a una comunicazione che segua questa direttrice di spontaneità: per noi è importante provare a vivere determinati luoghi attivi e significativi con quello che cerchiamo all’interno del progetto.
Per concludere, ricordate come si fa a partecipare al Social Film?
Valeria Pesare: Dal 21 Marzo al 15 Aprile si può inviare, tramite WeTransfer, all’indirizzo email tarantosocialfilm@gmail.com un video di cinque minuti che illustri cosa rappresenta la città per l’autore del filmato. Per garantirci il materiale necessario e coinvolgere anche le riprese di chi è tornato in città la scorsa estate, si possono inviare video realizzati fra l’1 Gennaio 2014 e il 15 Aprile 2015. La data simbolo del progetto resta comunque quella del 21 Marzo, non per imitare Italy in a Day, ma perché siamo un po’ romantici e ci piace l’idea di creare l’inizio di una nuova primavera per la città.