Emilio Riva. “Imparerete, dopo aver compulsato [sic!] il libro che tenete in mano, a ripetere questo nome e a pensare alla persona che lo portava con infinito rispetto. Anche i più duri e convinti denigratori delle opere del citato signore, proprietario e gestore delle acciaierie di Taranto, dovranno – se hanno un minimo di onestà intellettuale – picconare le loro convinzioni di granito, e lasciarsi invadere almeno da un dubbio”. È manifesto sin dalle prime righe, nella prefazione affidata a Vittorio Feltri, l’intento che anima il recente libro Emilio Riva, l’ultimo uomo d’acciaio, edito da Mondadori, scritto dalla nobildonna Giovanna du Lac Capet compagna per quarant’anni del magnate italiano dell’acciaio. Quello che traspare dalla lettura delle 200 pagine che compongono il libro, a metà tra l’agiografia e il romanzo, è un intento chiaramente revisionistico, per larghi tratti mistificatorio – ovvero, come si legge sul dizionario della lingua italiana, “che tende ad ingannare”.
Come giudicare, altrimenti, il carattere di alcuni passi che, anche per dovere di cronaca, si riportano integralmente:
all’olio di Taranto, come ad altri prodotti simili riservava tanta attenzione come alle arance e al capretto della Puglia, che diventeranno per tutti noi della famiglia una leccornia abituale. A Natale, Emilio regalava regolarmente lattine d’olio prodotto nei terreni dell’Ilva, con etichetta Ilva, la cui prima spremitura era riservata a un numero ristrettissimo di amici e parenti. Il capretto tarantino era invece uno dei due protagonisti della nostra tavola durante il pranzo di Pasqua, l’altro era il capretto che veniva dalla Val Camonica.
Al di là del fatto che proprio dall’abbattimento degli animali presenti nel raggio di 20 km dall’acciaieria è partita l’azione dei magistrati di Taranto nei confronti dei Riva e degli altri dirigenti – con la Procura tarantina che ha proceduto proprio per “avvelenamento delle acque e sostanze alimentari” -, resta come dato inconfutabile che qualunque persona di buon senso farebbe volentieri a meno di una lattina di olio con il marchio Ilva!
La difesa appassionata “dell’ultimo uomo d’acciaio” è andata in scena qualche giorno fa durante la presentazione avvenuta nel salotto romano di Enrico Cisnetto, Roma InContra, durante la quale la stessa Giovanna Du Luc Capet ha dichiarato “di aver dovuto fare i conti con un giustizialismo di tutti i media poco incline alle verità dei fatti. Giornali e tv lo hanno chiamato porco, maiale, mostro. Con questo libro io dico la mia verità”. Già, riscrivere la sua verità, questo è un altro intento dell’autrice, ed anche qui viene in soccorso la prefazione di Vittorio Feltri:
Il diario allo Stato e al governo dice: Emilio Riva è stato il più grande industriale italiano. Ha illustrato il nome dell’Italia nel mondo. Ha dato un’occupazione a centinaia di migliaia di persone. Ha resuscitato la siderurgia, trasformandola in fonte di ricchezza e orgoglio nazionale, Perché non avete impedito con la forza dei decreti e del buon senso di demolire un bene? Alla giustizia dice: che senso ha sbattere agli arresti domiciliari un signore ampiamente sopra gli 85 anni, malato? Che roba è? Non vale qui tirare fuori i bambini morti di cancro. Non c’entra nulla. È presunto innocente. Agli italiani dice questo, Giovanna du Lac Capet.
È una lettera d’amore di una donna che non sopporta le sia stato ucciso il marito dall’ingiustizia, secondo Feltri. “Che vuole provare a suscitare un senso di vergogna collettiva per il linciaggio cui è stato sottoposto il suo uomo”. Ecco un altro intento. Sempre nelle parole del giornalista “ispiratore” troviamo lo strumento che si usa per mistificare spesso una tesi: quello della menzogna.
Le prove? Nessuna. Tutti si improvvisano esperti in epidemiologia e bevono come oro colato relazioni senza forza scientifica. Non serve che le tesi accusatorie siano sbugiardate da periti di tribunale. La furia del linciaggio è innescata dalla semplice ipotesi di reato. Ci si convince della volontà di fare del male. Non si prende atto che il presunto assassino, ahimè o forse per fortuna morto, ha vissuto insieme a quegli operai e impiegati, dividendo con loro polveri e fumi, oltre che la fatica. Emilio Riva… Ditelo con rispetto questo nome. Altro che mostro.
Sui principi del metodo di analisi, però, potremmo concordare con la vedova di Emilio Riva, quando scrive: “Ho voluto capire davvero cosa sia accaduto, quali sono i motivi che hanno fatto scoppiare il cosiddetto caso Ilva in modo così fragoroso e incontrollato”. E ancora quando dice, come nella presentazione di Roma: “mai qualcosa del genere era avvenuto prima nella storia dell’Italia repubblicana”. Sono gli unici passi del racconto di questa storia in cui potremmo essere d’accordo con la signora du Lac Capet. Come lei stesso ha ammesso, “ognuno potrà pensarla come crede, formarsi l’opinione che vuole. Ma almeno, avrà ascoltato due campane”.
E se permette, signora Riva, per fortuna sono molti a fidarsi più dei dati e delle evidenze scientifiche diffuse dall’Istituto Superiore di Sanità, che di un libro scritto con amore che, in chi legge, può però suscitare solo rabbia. “Emilio Riva, l’ultimo uomo d’acciaio”, un libro da leggere, ma non da consigliare.