Sono giorni di festa in città. Si festeggia San Cataldo, patrono di Taranto. C’è un famoso detto che vuole che il santo ogni anno, con la sua venuta, annunci alla cittadinanza che il freddo è passato e che il caldo è prossimo a venire.
Irlandese e amante dei forestieri, di lui la tradizione religiosa narra che a Taranto ci arrivò per una visione divina. La sua missione era quella di salvare un popolo sofferente e ormai sul punto di perdersi completamente. Taranto lo accolse con la bufera e con un mare in tempesta. In quel mare il Santo vi gettò il suo anello pastorale, e a quel gesto le acque si chetarono miracolosamente; e proprio li, nel punto dove aveva gettato l’anello, si creò un citro d’acqua dolce ancora oggi visibile.
Alle porte della città, in questi giorni, si annuncia con prepotenza un forestiero. Non ha le fattezze solite di chi è bisognoso d’aiuto. Ha molti soldi, è potente, e non è certo personaggio che si può amare come un forestiero qualunque. In dote porta altri avvenimenti, conseguenze sconosciute e imprevedibili, probabilmente dannose. Il suo arrivo pare spaventare l’intera comunità che intanto, però, appare persa e rassegnata. Il forestiero si chiama Lakshmi Mittal, proprietario del colosso siderurgico ArcelorMittal e promesso padrone dell’Ilva di Taranto.
Il tavolo ministeriale con i sindacati per la vendita dell’Ilva è in una fase di stallo a seguito del brusco stop del 26 aprile. Uno stop che non lascia presagire quante e quali porte rimangono ancora aperte. Non è la prima interruzione del negoziato e forse non sarà neanche l’ultima.
È un altro capitolo di una situazione che rappresenta solo un pezzo della questione complessiva dell’Ilva, della città, e di un paese intero che sembra sempre più sull’orlo di un baratro, incapace di trovare soluzioni credibili ai suoi tanti mali.
Quello del ventisei aprile è stato l’ultimo di una serie innumerevoli di incontri che non hanno modificato, nella sostanza, i termini della questione, rimasti drammaticamente gli stessi. Un nuovo tavolo è stato convocato per domani, 10 maggio: vedremo se produrrà qualcosa.
I primi campanelli d’allarme erano scattati già nel gennaio del 2016, quando il governo Renzi e il ministro Guidi avevano deciso di mettere sul mercato la più grande acciaieria d’Europa tramite un bando internazionale, che al suo interno prevedeva, per l occupazione, solo un “mantenimento di adeguati livelli occupazionali”.
Poi via via altri tasselli si sono aggiunti: il bando è stato vinto da ArcelorMittal – nonostante diverse e autorevoli fonti avevano indicato in quello della cordata guidata da Jindal il miglior piano per l’Ilva di Taranto. E’ stato quindi sottoscritto un contratto di vendita, rimasto segreto per diversi mesi; e infine si è avviata la trattativa sindacale nel peggiore dei modi possibile, confermando esuberi, tagli ai salari e ai diritti.
Tutte queste fasi sono state accompagnate da mobilitazioni dei lavoratori, a Taranto come negli altri siti produttivi, ma le questioni poste sono rimaste dannatamente sul tavolo senza ricevere sostanziali modifiche – a partire, e non poteva essere altrimenti, da quella occupazionale. Si è fatto largo nella comunità un sentimento di impotenza che investe anzitutto i lavoratori, sempre più preoccupati, ma anche la città, sostanzialmente silente e stordita, disillusa e piegata sotto i colpi delle sue divisioni interne.
È diffusa l’ impressione che tutto sia già stato scritto. Ad avvalorare questa tesi non si può non rimarcare il fatto che i governi, sia quello Renzi che quello Gentiloni, abbiano giocato una partita escludendo di fatto lavoratori e cittadini. Un pezzo alla volta – con il bando di vendita, con il DPCM ambientale e con il contratto stipulato tra commissari e ArcelorMittal – hanno costruito un perimetro che pare invalicabile per tutti. Si sono firmati atti riguardanti la vita e il futuro di migliaia di persone. Eppure tutte queste persone sono state escluse dalle scelte, richiamate semmai, a giochi fatti, solo per migliorare la forma di quanto già deciso altrove. Sempre senza la possibilità concreta di oltrepassare un perimetro stabilito da altri.
Non è l’acciaio a tutti costi che vogliono imporci, è semmai qualcosa di molto peggio: è l’acciaio a questi costi! E sono costi di lacrime e di sangue, con buona pace della strategicità dell’Ilva, della sue maestranze e della città, piegata di fronte agli interessi ben più forti dei padroni e delle multinazionali.
Con il parere favorevole dell’antitrust, sia pure con una serie di misure correttive, il cerchio sembra chiudersi. Rimangono, come ultimo ostacolo prima della capitolazione, solamente i sindacati, indeboliti da una campagna di delegittimazione che all’ occorrenza non esiterà a mostrare le armi più meschine, funzionali a costruire il terreno più fertile per la riuscita dell’operazione. Rimangono solo – e soli – i lavoratori, le cui sorti sembrano non interessare più a nessuno. L’obbiettivo è quello di portare a compimento il lavoro iniziato con il bando di vendita. L’obbiettivo è far approdare la nave in acque solo apparentemente più sicure, ma in realtà fitte di pericoli, e comunque peggiori di quelle da cui si era partiti.
Nessuno pare voler rimanere con il cerino in mano e allo stesso tempo nessuno vuole rimanere fuori dalle scelte. Ma tutto pare già deciso: si è deciso che Ilva deve produrre a queste condizioni, con questi costi, con questi sacrifici. Eppure è in ballo il futuro di migliaia di famiglie, il futuro di Taranto, dell’intero paese. Si deve decidere certo, ma se si sbaglia le conseguenze potrebbero essere irreparabili e nessuno, in ogni caso, sarà pronto a intestarsi le colpe di un fallimento.
Taranto rischia di uscire dal vortice in cui si trova spappolata e con le ossa rotte: con la sua fabbrica più grande svenduta ad una multinazionale privata, con una situazione ambientale ancora tutta da risolvere, con meno posti di lavoro, con più precarietà, con una situazione sanitaria sempre più drammatica, con una vaga e sgangherata idea di futuro che ci sfugge come sabbia tra le mani e che non ci da risposte immediate e concrete.
La tempesta, nonostante tutto, non ci ha ancora travolti ma il tempo stringe e bisogna far sì che gli errori del passato non ricadano su chi ha sempre pagato colpe non sue. Stabilire condizioni di partenza almeno uguali a quelle con le quali è iniziato tutto e che non peggiorino ulteriormente la vita delle persone. Respingere tutti insieme, come obbiettivo minimo, comune e breve termine, i costi che vogliono imporci.
In città sono giorni di festa; Taranto omaggia con sempre meno fiducia il suo protettore. Fa caldo e l’ inverno è ormai alle spalle. Eppure si sente aria di bufera, di tempesta, di un cambiamento non necessariamente positivo. Si viaggia in acque ostili e tumultuose.
Passeggiano i tarantini vicino al loro mare. Sullo sfondo c’è la grande fabbrica, simbolo di un passato ingombrante ma ancora determinante e necessario; un passato che minaccia di lasciare solo macerie, portando via con sé i suoi simboli. Vecchi, di un altro secolo, di un alta epoca: le fabbriche, i sindacati, i lavoratori, il lavoro, le ideologie, le fedi di ogni tipo.
Passeggiano i tarantini sotto il sole. Strafottenti, disillusi, quasi indifferenti. Il cerchio si sta chiudendo ad anello, come un anello. Ma di miracoli e di acque chete dove approdare, qui non se ne vede l’ombra.