“La romanza sporca dei due mari” (Scorpione Editrice) è il primo romanzo di Roberto Nistri. Venerdì 6 ottobre, alle 18:30, si terrà la prima presentazione, presso la Libreria Gilgamesh (via Oberdan, 45). Qui vi proponiamo un’intervista all’autore, curata da Gianluca Lovreglio, storico e curatore del blog Nistrikos.
A partire dal 1980, la bibliografia di Roberto Nistri si è qualificata per una rassegna abbastanza corposa nel campo della saggistica storica e filosofica, con una particolare attenzione per i processi d’industrializzazione in terra jonica.
Prof. Nistri, nel passato, ha anche frequentato con soddisfazione fumettologia e varia curiositas… Può quindi non sorprendere una sua recente scrittura nel campo della narrativa.
Amo ricordare il felice riconoscimento, nel 1985, da parte del grande giornalista Sandro Viola che, in un territorio urbano già incancrenito e deprivato, promuoveva una petit école di giovani studiosi, fra i quali veniva indicato, con malcelato orgoglio, l’allora giovane Nistri, sempre tentato dalla pluralità e dalla innovazione, sempre in urto nei confronti di una monocultura statalmilitare o tardoindustriale che aveva imprigionato il territorio in una nevrotizzante coazione a ripetere, una disperante reductio ad unicum.
Nella pubblicistica e in campo editoriale, non sono mancati valorosi storici e filologi che hanno sputo far argine al degrado culturale ed ambientale, sempre soffrendo la dolorosa e insipiente separatezza nei confronti di un mondo politico distratto e spesso colluso con una economia criminale che provocava nel territorio jonico una autentica “Strage di Stato, di lunga durata e a norma di legge”. La città di Archita, ridotta ad una identità incerta e residuale. Probabilmente la più grande tragedia industriale su scala europea!
I volenterosi della petit école non hanno mai mollato ma, come in un film dell’orrore, l’antiquissima urbs rimaneva ormai imprigionata sotto un coperchio di disaffezione e sfinimento. Nel deserto che avanza, in tanti hanno cercato cieli più puliti. Sia pure da lontano, non mancano giovani e brillanti operatori culturali che vogliono credere ancora in un futuro benigno per la città ebalica, auspicando una imperativa fuoruscita dalla dalla monocultura per disegnare nuove rotte, ideando laboratori culturali “interni”, dialogando con quelli “esterni”, come scrive il tenace giornalista Alessandro Leogrande, producendo un nuovo “polo culturale del Mezzogiorno, come accadde ad esempio con il Premio Taranto: la bella avventura ideata da Antonio Rizzo, negli anni avventurosi del dopoguerra. La cultura al primo posto.
Cosa è rimasto di questi sforzi, e di quei risultati?
Purtroppo, a distanza di decenni, quel premio jonico, nato per sollecitare la potenza della creazione narrativa, non ha promosso una tradizione di coltivata fioritura letteraria, spiaggiata tristemente nelle secche coltivata una fioritura narrativa, tristemente spiaggiata nelle secche della pedanteria e dgli intrallazzi municipali. Intanto l’uomo della pietra, senza sperare o disperare, continuerà la missione di Sisifo. Ma, come diceva Ernesto De Martino, gli uomini hanno fame di simboli e di storie. Senza la riabilitazione della “figurata malìa”, del muscolo della fantasia, continueremo ad aggirarci smarriti nella incerta presenza.
Esiste ancora, a ben vedere, il ruolo per un filosofo in terra jonica?
Il filosofo può ricordare l’immagine di Nietzsche, distrutto dalla sifilide, in una sedia a rotelle, di fronte ad una distesa acquea, che chiede alla perfida sorella: “Ma è vero che ho scritto tanti bei libri? E la maligna risponde: “come ti vengono in mente certe idee”.
Eppure qualcosa pur sempre rimane, fra le pagine clare e le pagine nigre. La città può rivivere, ma deve inventare e reinventarsi. In latino, “invenire” significa anche cercare, trovare. La nostra storia è piena di cose che attendono di essere trovate. Contro l’anestesia la replica può essere solo la riabilitazione della festa e della utopia, per piccina che essa sia. Quando non sai, inventa!
Esiste un’anima, una immagine identitaria di un territorio come il nostro?
Fra il Materiale e l’Immaginario, la città conserva un dolente, ma anche fantasioso, deposito di sogni e di segni. Bologna è il cinema di Pupi Avati. Una città vive solo se viene raccontata. Le figurine di Giulietta e Romeo, avvolte nella loro Chérie solitude, rendono ancora magica una città, in virtù di un Bardo inglese. Roma, malgrado i vandali, è ancora e per sempre “La dolce vita di Fellini”! Malgrado la distruzione delle Torri, la “Manhattan” di Woody Allen, è vocazionata alla immortalità. Nebbia remota è lo splendor dell’Arca… Il Salento è il cinema di Winspeare. La grafica del sempre vivo Andrea Pazienza è il sogno di una Apulia felix che significa “senza porte”, laggiù, a sud del mondo.
E qui, a Taranto?
“Salta dalle nuvole / cavalca le metafore / se ti senti fragile / investi sull’inutile / non morire nell’intentato/ non finire annientato/ Che almeno tu possa dire… Ci ho provato! (Skiantos ). Utopia, utopia , per piccina che tu sia…
Peccato che gli studiosi di terra Jonica abbiano snobbato la potenza del racconto: chiamala come vuoi: figurata malìa, immaginazione produttiva, felice menzogna, inventata dal primo cacciaballe. Odisseo, quel sublime truccatore che metteva in moto la civiltà dell’Occidente, gareggiando con la sua sposa nel tessere infinite trame. Cassandra difendeva la verità, ma la chiamavano Cazzandra. Odisseo conosceva invece l’arte di far uscire la mosca dalla bottiglia, mettendo in scena maliarde e ninfette, monocoli e cannibali, un filino di omosex e mangiatori di loto allucinati, con una scazzottatura finale da Western (Umberto Eco dixit).
Onore agli storici e filologi, ma non saranno essi a riscaldare il cuore di una città. Non parliamo poi di presunti Brand pseudoturistici con Spartani di cartapesta, corredati di selfie con il patetico fammi bello!
Eppure l’esigenza di un’identità è più che mai sentita da molti tarantini: come anni or sono dimostrò Patrizia Resta, Taranto ha un’identità tutta da costruire…
Il grande cinema americano ha raccontato la città anche come luogo inquietante (Ebalia come splendida location) con una costellazioni di segni capace di erotizzare e trasformare in icona anche “Un uomo da marciapiede”. Importante è che l’arte possa farti riconoscere ciò che non hai mai visto, mostrandoti l’usuale come se fosse la prima volta. Non servono localismi regressivi o pacchianate pseudoidentitarie. Cinema, teatro, grafica: si pensi alla coniunctio amorosa fra il regista Pupi Avati e la città di Bologna, così come la filmografia pizzicata del salentino Edoardo Winspeare. Altro che brandizzare la città con patacche di cartapesta! Solo il racconto ti sveglia e ti porta lontano. Ti permette di attraversare lo specchio, volando verso la seconda stella a destra, poi dritto fino al mattino. A che vale chiedersi il perché del pauperismo narrativo in terra jonica? La risposta è quella di sempre: la maledetta monocultura che, in adorazione del gigantismo, spingeva all’annientamento anche il Colosso dell’isola di Pasqua.
Parliamo dell’approdo di Nistri alla narrativa…
Solo la narrazione rompe l’incantesimo del già fatto e del già detto, spalancando le porte della varietas secondo le due regole auree dello Shock e dello spaesamento, per scoprire nuovo cielo, nuove terre, e soprattutto nuove parole. A che vale una scrittura che non impensierisca!