L’Ilva dalla sua nascita ha attraversato e alternato periodi di grande prosperità a periodi di forte difficoltà. Oggi, dopo oltre 5 anni di crisi acuta, si trova nella difficile situazione di dover affrontare la sfida finale, quella più dura e forse più importante, quella insomma che potrebbe decretarne la rinascita o la morte. Siamo al punto di svolta e, come avvenuto in passato, anche questa volta il grande centro siderurgico trascina con sé l’ intera città con tutti i suoi abitanti, scaraventandola dentro il vortice dei suoi drammi, delle sue paure, dei dubbi e delle speranze. Come se il suo destino fosse inscindibilmente legato al destino della città che lo ospita. Cosi è sempre stato da quando la fabbrica esiste. Così è anche oggi.
Nata con la promessa di essere volano per uno sviluppo industriale autonomo e diversificato, potenziale fiore all’occhiello di tutta l’economia cittadina, è diventata col tempo fiore del male, tappo e impedimento per qualsiasi sviluppo alternativo all’acciaio. Gravi le colpe di una classe imprenditoriale tarantina senza visione, che – insieme a tutta la città – si è accontentata delle promesse a breve termine esclusivamente occupazionali, del “tutti all’Ilva”, della monocultura dell’acciaio. Così, diminuite le ingenti offerte occupazionali – che non sarebbero potute durare in eterno –, Taranto si trova oggi smarrita, senza un futuro e pronta a rinnegare il suo passato. Quel passato che pure aveva promesso enormi opportunità, ancor maggiori dei benefici che realmente, e inequivocabilmente, ha offerto. Si cerca il nuovo e il diverso. Si vuole tagliare i ponti con un pezzo importante della nostra storia – una storia che ci appartiene e alla quale siamo intimamente legati. La fabbrica è finita, è cupa, appartiene ad un passato oscuro; ci ha usati e noi l’abbiamo usata, talvolta abusandone, e facendoci abbindolare dalle sue promesse. Non ha più nulla da offrirci. Come una donna diventata vecchia e brutta, alla quale abbiamo succhiato tutte le speranze nostre e dalla quale non abbiamo più nulla da succhiare se non i suoi veleni e poche migliaia di redditi.
La fabbrica è donna e quindi può essere conquistata. È bella, e quindi può essere corteggiata.
E a corteggiare l’Ilva, nonostante le sue quasi sessanta primavere, ci sono alcuni tra gli industriali più potenti del mondo. Molti riflettori le sono puntati addosso. Su di lei e sul suo futuro si scatenano invidie, odio, rabbia e ancora speranze e promesse sempre più flebili.
Il 3 marzo è il giorno previsto, dopo diversi rinvii, per la presentazione delle offerte vincolanti, che porterà entro settembre/ ottobre di quest’anno al definitivo trasferimento degli asset produttivi. Due le cordate in campo: AM INVESTCO ITALY, composta da Mittal e Marcegaglia, da un lato; ACCIAITALIA, formata da Arvedi, Cassa depositi e prestiti, Jindal e Delfin, dall’altro. La fase di vendita entra nel vivo e i tentativi di entrambe le cordate di accreditarsi come miglior offerente ne sono la dimostrazione. Sebbene non ci siano testi ufficiali e completi, il quadro appare già più nitido rispetto a qualche tempo fa. Le recenti interviste e dichiarazioni hanno contribuito a chiarire quale assetto produttivo si vorrebbe dare alla fabbrica: Mittal propone una produzione di 6 milioni di tonnellate con il ciclo attuale, con l’aggiunta di altre due milioni di tonnellate di bramme da importare dagli stabilimenti francesi e da lavorare a Taranto; Jindal invece propone un piano più articolato e a lungo termine: uno stabilimento ibrido che prevede innovazioni tecnologiche ( preridotto, decarbonizzazione, forni eletrrici) da affiancare al ciclo tradizionale, e che a regime potrebbe portare la produzione intorno alle 12 milioni di tonnellate annue. Entrambe assicurano il risanamento ambientale; entrambe non hanno ancora dato garanzie occupazionali.
Ma se sul piano ambientale sembrano esserci paletti insormontabili, e sui quali è estremamente improbabile che venga concesso qualcosa, sul piano occupazionale il terreno appare più scivoloso: il bando di vendita, come è noto, prevede al punto 4.1 che i soggetti ammessi alla procedura siano quelli “in grado di garantire la continuità produttiva dei complessi aziendali oggetto dell’Operazione, anche con riferimento alla garanzia di adeguati livelli occupazionali”.
A questo si aggiunge il decreto-legge n.243 del 29/12/2016, che recentemente ha avuto il via libera definitivo; questo provvedimento individua nel contratto di trasferimento dei complessi aziendali le modalità attraverso cui “i commissari straordinari potranno svolgere e proseguire le attività esecutive e di vigilanza funzionali all’attuazione del Piano approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 14 marzo 2014” fino alla scadenza del piano stesso e “entro tale termine, i commissari straordinari sono autorizzati ad individuare e realizzare ulteriori interventi di decontaminazione e risanamento ambientale non previsti nell’ambito del predetto Piano, ma allo stesso strettamente connessi, anche mediante formazione e impiego del personale delle società’ in amministrazione straordinaria non altrimenti impegnato. Allo scopo di favorire il reinserimento del personale stesso nell’ambito del ciclo produttivo”.
Facile intuire da queste parole che anche dopo la vendita l’amministrazione straordinaria rimarrà in piedi con dei suoi dipendenti, che saranno evidentemente diversi e divisi dai dipendenti della nuova proprietà . Un’Ilva più magra di maestranze dirette dunque, con una riserva di lavoratori da usare all’occorrenza e fino a quando non è dato sapere.
A tutto ciò si aggiungono le intricate vicende giudiziarie: il miliardo e 300 milioni è ancora lontano dall’essere nelle disponibilità della fabbrica e del territorio, nonostante un tentativo di patteggiamento tra la magistratura e la famiglia Riva atto a facilitarne il rientro.
È cosi, in fabbrica, torna a crescere la preoccupazione contestualmente con la scadenza dei contratti di solidarietà e la sottoscrizione della Cassa integrazione straordinaria (Cigs) per tutta la durata dell’amministrazione straordinaria. Frutto di una trattativa difficile e delicata, l’accordo può essere considerato solo parzialmente positivo: i lavoratori interessati passano dai 4.984 inizialmente richiesti dall’azienda a 3.240 come numero massimo e 2.465 come numero medio; si ottiene una rotazione più equa anche per i raparti attualmente chiusi; ci sarà un trattamento salariale in continuità con quello fin ora ottenuto con contratti di solidarietà. L’intesa tuttavia non affronta il nodo principale e più pericoloso, cioè scongiurare sin da subito che i lavoratori, nella fase di vendita, possano essere divisi in due società distinte. Tale situazione, provando a guardare più lontano, potrebbe rappresentare un passaggio per facilitare futuri esuberi strutturali. Un nodo fondamentale e attualmente irrisolto che molto presto tornerà ad essere terreno di scontro.
Ma se in fabbrica la situazione è movimentata, in città, complici le prossime elezioni comunali, le acque non sono molto più tranquille. La questione Ilva resta un punto chiave nel dibattito elettorale, anche se in realtà solamente simbolico; e il parere sul suo futuro viene sventolato con superficialità soprattutto da chi non ha null’altro da dire sulle innumerevoli problematiche cittadine.
Nel frattempo tornano i cortei del variegato mondo ambientalista che, con la manifestazione “Giustizia per Taranto”, prova a ricompattarsi al suo interno. Pochi gli spunti realmente interessanti; per il resto, i soliti numeri, i soliti slogan, i soliti atavici vizi che distruggono invece di costruire, le solite inevitabili bramosie di notorietà per una ragione o per un’altra. Candidati in cerca di coalizioni e personaggi in cerca di autore. Tutto normale, tutto legittimo, tutto rispettabile, tutto bello! Tranne una cosa: le parole. Le frasi, i messaggi, rilanciati pubblicamente e possibilmente davanti a un telefonino che possa riprendere tutto e farli diventare virali. Discorsi applauditi ed elogiati da folle che il senso delle parole non lo capiscono più. Non capiscono più il senso di certi atteggiamenti, non comprendono più il valore salvifico della solidarietà – unico atto realmente rivoluzionario di questi tempi –, non hanno più memoria.
Già, la memoria… questa maledetta! La mia mi riporta a poco meno di tre anni fa. Era il primo agosto del 2014 e la diabolica Confindustria ionica scendeva in strada a manifestare contro il rischio di desertificazione industriale, portando con sé capi, preposti e padroncini, ma anche operai, la maggior parte dei quali provenienti proprio dall’indotto Ilva, usati come teste di ariete per far valere gli interessi di altri, dei padroni. Come già fecero i Riva, il 30 marzo del 2012, con la marcia dei 7000, quella che rimane una delle pagine più tristi per la comunità operaia tarantina.
Chissà se c’era anche Giacomo Campo, il giovane operaio dell’appalto morto in Ilva lo scorso settembre, quel primo agosto del 2014. Di sicuro c’erano molti dei suoi colleghi. Quel giorno c’era anche un contro corteo di cittadini che rivendicavano il diritto alla salute. Giacomo fu fischiato, insultato con cori da stadio rabbiosi al grido di : “venduti!” “vergogna!” “burattini!”. Nessuno allora si interessò della vita di Giacomo; nessuno si chiese se fosse precario e chissà quante volte, prima di trovare la morte, aveva dovuto rischiare la pelle per il suo pezzo di pane, instabile e quotidiano. Alcuni si dissociarono, ci fu qualche polemica, qualche presa di distanza, ma nessuno chiese scusa per quei cori. Si consumò una altra pagina buia della città, una ferita ancora aperta, passata troppo presto nel dimenticatoio. Tra loro, tra i contestatori, c’erano molti di quelli che dopo la morte di Giacomo Campo gli hanno dedicato un commosso ricordo.
Nessuno ancora oggi ha chiesto scusa per quel fatti, e anzi di episodi simili ce ne sono stati altri, innumerevoli, sempre gli stessi, fino all’ultimo, quello consumatosi nell’ultima manifestazione. Questa volta è un operaio a parlare. Urla, chiede scusa alla città per i morti, per gli ammalati, per aver contribuito ad ammazzare, recita i nomi dei compagni caduti, anche di Giacomo Campo. “Capre”, “vigliacchi”, dice rivolgendosi agli operai suoi colleghi. Già, è tutta qui la ribellione, l’emancipazione, la rinascita, la riscossa; scaricare sulle vittime tutte le responsabilità, intestarsi le colpe per i disagi che viviamo, proprio come vuole il padrone, quello che da anni ci vuole convincere che la colpa dei nostri mali è solo la nostra, che non c’è qualcun altro che ci ha preso il lavoro, la salute e il futuro. È questa la rivoluzione? Usare i morti a proprio piacimento, che siano di malattia o per incidente sul lavoro: vigliacchi che si uccidono tra loro? Nessuno pensa invece a chi, ammalato, può contare solo sul suo reddito e a chi, costretto a subire i veleni, non ha un reddito su cui contare.
“Il ricco commette ingiustizia e per di più grida forte, il povero riceve ingiustizia e per di più deve scusarsi”. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è intestarci colpe che non abbiamo. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è puntare il dito contro altre vittime.
Ne esce un quadro devastato, dove la divisone regna sovrana: divisi sono gli operai – sempre più difficile tenerli insieme e identificarli come classe –; divisa è la città, almeno quella più attiva, mentre la restante parte rimane silenziosa e indifferente, in attesa di una propria opportunità. Tutto è legato ai propri egoismi: la salute è sempre più importante del lavoro degli altri; con i padroni degli altri tutti forti; tutti sono servi se il servo non posso essere io.
Non esiste una visione complessiva, non esiste un “piano B”, e forse non esiste nemmeno un “piano A”. L’Ilva non può essere chiusa ma nemmeno può rimanere aperta a lungo in queste condizioni. Non si può morire di lavoro ma nemmeno si può vivere senza.
E si rimane così: fermi, stritolati in mezzo, tra un passato che non si può cancellare e un futuro incerto e precario, che non riusciamo ancora a vedere in maniera nitida. La sensazione, lampante e costante, che ci saranno ancora morti, feriti, tumori e disoccupati, scontri ideologici e scontri personali.
La città appare così identica alla sua fabbrica, quella alla quale vorrebbe ribellarsi ma della quale non può fare a meno, punto fermo o ostacolo per ogni altro ragionamento, stretta in una morsa da cui non riesce a liberarsi.
Divisa, lacerata, egoista, ipocrita, inconcludente. Senza un briciolo di memoria. Ancora in piedi ma barcollante. Come un fiore al vento, indifesa e impaurita. Anch’essa donna. E forse è vero che la donna va amata, non capita.