Le lungaggini della giustizia civile italiana sono ormai proverbiali, tanto che sono numerosi i casi in cui chi vanta un legittimo diritto preferisce rinunciarvi in tutto o in parte pur di non imbarcarsi in un giudizio che nella maggior parte dei casi si prospetta lungo e costoso.
Da decenni, ormai, si avverte l’esigenza di interventi che rendano più veloce ed efficiente la macchina della giustizia, poiché, secondo il noto aforisma di Montesquieu, “giustizia ritardata è giustizia negata”.
Negli ultimi dieci anni, l’attività dei governi che si sono succeduti alla guida del paese è apparsa, da questo punto di vista, a dir poco frenetica: dal 2005 ad oggi, infatti, si è assistito a ben sedici interventi normativi che hanno modificato o comunque riguardato indirettamente il codice di procedura civile, sempre col fine dichiarato di deflazionare il carico delle cause pendenti e di velocizzare i tempi biblici dei processi.
La maggior parte di questi interventi normativi è stata effettuata seguendo fondamentalmente due direttrici: da un lato l’adozione di nuove norme procedurali, con l’intento di superare alcune rigidità ritenute eccesive e quindi foriere di inutili perdite di tempo; dall’altro, la creazione di ostacoli sempre più numerosi e costosi al fine di disincentivare il ricorso alle aule di giustizia.
Il risultato di questa strategia è stato, a conti fatti, non certo quello di dare risposte più celeri ai cittadini, ma quello di rendere sempre più difficoltoso l’esercizio dei propri diritti.
Sotto il primo profilo, de da un lato vi sono stati alcuni interventi di buon senso sul codice di rito (ad esempio, l’accorciamento di alcuni termini processuali la cui lunghezza era obiettivamente ingiustificata, come nel caso dei termini per proporre appello), ma che hanno avuto un impatto pressoché pari a zero sulla durata dei processi, dall’altro sono state introdotte nel codice delle norme che hanno reso sempre più difficoltosa la stessa redazione degli atti da parte degli avvocati. Attenzione, tali difficoltà non sempre sono superabili attraverso la preparazione e l’aggiornamento continuo, che rappresentano un obbligo, non solo deontologico, per ogni avvocato; spesso, infatti, ci si trova di fronte a testi di legge scritti in maniera pressoché incomprensibile, suscettibili delle interpretazioni più disparate, con la conseguenza che un diritto può facilmente essere negato non sulla base dell’accertamento di una sua insussistenza, ma sulla interpretazione, da parte del giudice, dei requisiti formali dell’atto giuridico, il più delle volte del tutto soggettiva.
Sotto il secondo profilo, si è assistito negli ultimi anni al costante aumento dei costi della giustizia; il costo del contributo unificato (un contributo posto a carico della parte che promuove un giudizio) è aumentato, nel periodo che teniamo in considerazione, di circa il 50% per il primo grado di giudizio e di un ulteriore 50% per i successivi gradi; l’importo della marca da bollo, da versare anch’esso a cura di chi promuove un giudizio, è stato elevato, letteralmente da un giorno all’altro, da 8 a 27 euro; è stata eliminata l’esenzione dal contributo per le cause di valore inferiore a 1.000 euro; è stato posto un limite di reddito alla gratuità delle cause di lavoro.
Ma ancor più assurda è stata la politica di creazione di veri e propri ostacoli procedurali all’esercizio dei propri diritti; da questo punto di vista, l’autentico “capolavoro” è stato realizzato con l’introduzione dell’istituto della “mediazione obbligatoria”.
In una serie di materie abbastanza vasta (condominio, diritti reali, divisioni, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazioni, comodato, affitto di aziende, risarcimento di danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione a mezzo stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari), infatti, chi intende avviare un giudizio deve necessariamente promuovere un procedimento di mediazione, a pena di improcedibilità della domanda giudiziale. Tale procedimento consiste in un tentativo di conciliazione, da promuovere dinanzi ad organismi di mediazione accreditati dal Ministero della Giustizia, con l’ausilio di una figura terza ed imparziale, quella, appunto, del mediatore.
Entrata in vigore per la prima volta nel 2010, abrogata a seguito di una pronuncia di incostituzionalità per eccesso di delega del decreto che l’aveva introdotta e quindi reistituita con alcune modifiche nel 2013, ha avuto ad oggi risultati pratici a dir poco deludenti, almeno per i cittadini che vi fanno ricorso.
La mediazione obbligatoria ha infatti costi che, in caso di esito favorevole del procedimento, sono addirittura superiori a quelli di un giudizio; in caso di esito negativo (ovvero nella stragrande maggioranza dei casi), sia pure con costi minori rispetto alla prima ipotesi (e comunque da aggiungere a quelli che si dovranno affrontare per il successivo giudizio) si rivela una ulteriore perdita di tempo per chi voglia tutelare un proprio diritto.
In compenso, gli organismi di mediazione e gli istituti di formazione (che organizzano costosissimi corsi di formazione ed aggiornamento per mediatori) fanno affari d’oro.
L’ultima follia della serie è la cosiddetta “negoziazione assistita”, termine altisonante sbandierato dal governo Renzi come la panacea per i mali della giustizia. In cosa consiste? In concreto, in una normalissima lettera, che l’avvocato è tenuto ad inviare alla controparte prima di avviare un giudizio, con l’aggiunta di un “invito” a procedere ad una negoziazione; nulla di nuovo, insomma, rispetto a quanto è sempre avvenuto anche prima di questa riforma “rivoluzionaria”, con la differenza che ora tale consolidata prassi è divenuta obbligatoria per tutte le controversie civili di valore inferiore a 50.000 euro ed impone di attendere per trenta giorni l’eventuale risposta della controparte per poter procedere col giudizio; anche in questo caso, si assiste ad una ulteriore perdita di tempo per chi intenda far valere un diritto, considerato che in alcuni casi (ad esempio, in materia di infortunistica stradale), il termine di trenta giorni si aggiunge ad altri consistenti termini stragiudiziali già previsti dalle normative speciali.
Evidentemente, la soluzione dei mali della giustizia italiana non può passare dalla negazione della tutela dei diritti, soprattutto se tale negazione penalizza maggiormente, come è ovvio, le fasce meno abbienti della popolazione. La rapidissima e superficiale carrellata che si è fatta sopra dimostra come negli ultimi dieci anni il costo della giustizia sia cresciuto a dismisura e spesso per chi non gode di redditi elevatissimi rivendicare un diritto attraverso il ricorso ai tribunali diviene un sacrificio insostenibile (anche considerando che i requisiti reddituali per beneficiare del patrocinio a spese dello Stato sono molto restrittivi).
Quali, dunque, le soluzioni? Alla fine dello scorso anno, il Ministero della Giustizia ha effettuato un censimento dell’arretrato giudiziale del nostro paese, applicando nuovi e più razionali parametri, i quali hanno dimostrato che la situazione di sovraccarico è indubbiamente esistente, ma non è drammatica come si è sempre pensato, ponendosi quasi in linea con la media europea; altrettanto non può dirsi sulla durata dei processi, nettamente più alta della suddetta media.
Il problema sembrerebbe quindi riguardare più lo smaltimento delle cause che una presunta eccessiva litigiosità degli italiani.
Altro elemento interessante è che, anche sotto questo profilo, l’Italia viaggia ad una doppia velocità, con gli uffici giudiziari meridionali notevolmente più lenti di quelli settentrionali.
Il Ministero addita quali responsabili di tale situazione i cc.dd. “giudici-lumaca” (ed in qualche caso anche a ragione), ma addebitare l’ingolfamento di un intero ufficio giudiziario alla lentezza di tutti i giudici che lo compongono appare quantomeno azzardato.
E’ evidente, invece, come le vere cause della farraginosità della macchina giudiziaria italiana siano da ricercarsi nelle carenze di organico e di strutture: pochi magistrati, poco personale di cancelleria (il blocco del turn-over ha fatto anche qui le sue vittime), poche e poco adeguate aule.
Al di là della demagogia e di qualche intervento marginale di tipo procedurale, la risoluzione dei problemi della giustizia italiana dovrà necessariamente affrontare tali nodi.