“L’altro Risorgimento di Carlo Pisacane” è l’ultimo lavoro pubblicato da Alessandro Leogrande. Ci sarebbe piaciuto discuterlo con lui, ma un’amara sorte non ce l’ha permesso. Pubblichiamo con piacere l’ampia riflessione di Valerio Lisi, che illustra l’attenzione e la passione con cui Alessandro si era avvicinato a una delle pagine più intense della nostra storia nazionale.
Lo scorso 10 settembre scrivemmo su queste pagine un breve commento sul testo “L’altro Risorgimento di Carlo Pisacane” (edizioni dell’Asino, Roma, giugno 2017), una raccolta di scritti scelti di e su Pisacane a cura e con un saggio del tarantino Alessandro Leogrande. Il libro usciva nel pieno della discussione sulla “Giornata della memoria dei martiri meridionali” che Alessandro aveva contribuito ad alimentare con alcuni illuminanti articoli apparsi sul “Corriere del Mezzogiorno” tra luglio e agosto ultimo scorso.
Avremmo desiderato muovere qualche osservazione sugli scritti scelti nel momento della presentazione del libro che lo storico Salvatore Romeo aveva in programma di organizzare a Taranto.
Il riferimento va in particolare al saggio di Nello Rosselli, che rimane sì quello più conosciuto e che conferì la giusta notorietà a Pisacane ma, a parere dello scrivente, non il più completo come Alessandro riporta nella quarta di copertina. In quegli stessi anni, infatti, accanto al “Carlo Pisacane” di Rosselli, vi furono i saggi di Vetter, Falco e l’epistolario di Pisacane a cura di Aldo Romano, che contribuirono a delinearne il profilo su più aspetti; sino ad arrivare a studi più recenti, in particolare a quelli di Luciano Russi e poi di Carmine Pinto e Luigi Rossi, ed infine ad altri lavori in corso d’opera o semplici tentativi come il nostro che però Alessandro ignorava.
Il libro di Rosselli – del 1935 -, validissimo ancora oggi con le sue ricchissime note, presenta la caratteristica di essere il più “giornalistico” dei testi per via della scorrevolezza del linguaggio, con uno stile romantico-risorgimentale in cui appare evidente l’inquietudine per la sofferenza del momento storico vissuto dal suo autore.
Crediamo oggi opportuno fare un’analisi un po’ più precisa del libro di Leogrande, e lo facciamo sempre ospitati dalle pagine di “Siderlandia” che Alessandro in una sua recente mail aveva sottolineato essere un’ottima tribuna per recepire questi interventi.
Il testo “L’altro Risorgimento” si apre e si chiude con i contributi di Leogrande; nel suo corpo vi si trovano in ordine un estratto del saggio di Pisacane “La Rivoluzione”, il “Testamento politico” di quest’ultimo (del 25 giugno 1857), un estratto del libro di Nello Rosselli come anticipato sopra, e infine la “Spigolatrice di Sapri”.
Nella sua prefazione, Leogrande invita i lettori a ripensare all’Impresa di Sapri come il momento forse più alto di democrazia riconducibile a quell’“Altro Risorgimento” uscito perdente, ma non per questo depauperato di significati. Alessandro percepisce come l’Impresa riesca ancor oggi a “scuotere anche noi, dopo 160 anni” così come all’epoca scosse il filosofo Herzen ed intellettuali del calibro di Hugo.
L’intenzione di Leogrande appare forse anche quella di farci comprendere, sebbene tra le righe, come questo “Altro”, opportunamente trasposto, possa assumere notevole importanza nella dialettica politica attuale. Il filosofo Leogrande ci ricorda l’acceso dibattito – nello stesso ambito repubblicano – tra Mazzini e Pisacane, quando quest’ultimo attaccò il genovese sul nodo irrisolto delle masse (braccianti e contadini innanzitutto), escluse dalla teoria mazziniana di “Dio e Popolo”. Ma Pisacane poi si riavvicinò a Mazzini allorché si rese conto che per far arrivare anche agli “ultimi” il pensiero socialista, doveva utilizzare il mezzo del gesto (dell’atto improvvisato), tipicamente di matrice mazziniana (i fratelli Bandiera, moti del ’53 in Lombardia e i vari tentativi di uccidere il tiranno per eccellenza, Napoleone III).
La decisione di una Spedizione nel Cilento fu concertata dai genovesi e dai napoletani tra il gennaio e il febbraio 1857, sotto la spinta emotiva del tentato regicidio da parte di Agesilao Milano, del tentativo rivoluzionario di Francesco Bentivegna e, politicamente, per avversare con ogni mezzo le pretese di Lucien Murat verso il Regno di Napoli.
Stando al Testamento, che sarà noto alla sua morte, lo scopo sarebbe stato quello di sostituire la tirannia borbonica con una Repubblica fondata su i due assunti di “Libertà e Associazione” di impianto socialista.
Da tutta la corrispondenza del periodo 1855-1857 tra gli artefici dell’organizzazione, non v’è dubbio che la direzione politica e strategica (e il poco denaro) sono da riferirsi a Mazzini, però riteniamo utile in questa sede sottolineare come nelle intenzioni di Pisacane vi fosse quella di dare maggiore risalto alla questione sociale attraverso il “Proclama” che si sarebbe dovuto diffondere nel napoletano nel giugno 1857, prima della partenza da Genova. Questa dichiarazione di intenti in undici punti, che si avvicina ad un elenco di principi costituzionali, veniva messa a confronto con la situazione sociale nel regno borbonico. Documento prezioso, scritto da Pisacane e modificato dalla penna di Mazzini, il Proclama rimane l’evidente risultato di un compromesso.
Ricordiamo infatti come gli scritti di Pisacane (“Guerra Combattuta” del ’51 e i manoscritti del ’56 e ’57 noti agli amici e non) avessero lasciato perplessi molti esuli per le idee espresse, troppo avanzate per quei tempi, con la conseguenza di provocare alcuni allontanamenti e defezioni, come quella importantissima del suo intimo amico/rivale – sin dai tempi della Nunziatella – Enrico Cosenz.
Cosenz infatti rinunziò alla Spedizione solo pochi giorni prima della programmata partenza del 13 giugno: era il tanto atteso capo militare che Giuseppe Fanelli aspettava per far insorgere la città di Napoli.
Se l’esito della Spedizione travolse emotivamente un po’ tutti, anche coloro che l’avevano avversata, la destra guidata da Cavour – osserva Leogrande – andò quasi in visibilio. Innanzitutto, sbandierando lo spettro del socialismo e con l’intento di mettere in agitazione le diplomazie europee, si affrettò a far giungere in Francia il testamento politico di Pisacane affinché qualche giornale lo pubblicasse (se ne occupò il Journal des Debats con una discutibile traduzione). Infine il governo sabaudo espresse la sua piena solidarietà a quello borbonico attraverso vie diplomatiche.
Ed è, dunque, non un caso che Leogrande termini la sua prefazione citando un passo del testamento, per riportarlo interamente subito dopo.
A questo punto, nell’”Altro Risorgimento” viene inserita una parte del saggio di Pisacane “La Rivoluzione” (finito di scrivere nel 1856 ma pubblicato postumo con pochissima diffusione).
L’estratto proposto è strettamente politico. Si bypassa la pur felice dissertazione sulle ineluttabili leggi di Natura per passare al nodo del ragionamento: giustificare l’”azione” contro l’immobilismo delle teorie dei moderati dell’800 che non apportavano nulla in quanto a reali garanzie di libertà, ovvero a emancipazione sociale ed economica. Ovvero Leogrande avverte la necessità di porre all’attenzione del lettore il ruolo di Pisacane come interprete della “… necessità di una rivoluzione profonda dell’Italia”. I termini in cui Pisacane pose la questione sono infatti tanto inequivocabili quanto ancora oggi validi ed applicabili: basta menzogne (per esempio all’epoca il dibattito sul suffragio universale), se c’è miseria il popolo non sarà mai libero di esporre il proprio pensiero ma rimarrà sempre schiacciato dal potere. Il popolo dovrà agire e lo dovrà fare su spinta della gioventù intelligente: vi sono dunque tracce di determinismo storico ma anche i cardini del mazzinianesimo con “Pensiero e Azione”. L’estratto proposto si conclude con una lunga esposizione della società socialista – nel contesto nazionale – pensata da Pisacane per il suo tempo.
Come ci aveva avvertito Leogrande nella prefazione, oggi il “vangelo politico” di Pisacane appare forse pura “archeologia” in quanto inserito in un contesto storico superato: l’Italia divisa in tanti staterelli e sottomessa a governi dispotici e reazionari, in cui “gli ultimi” erano privi dei basilari diritti. Serve però a dimostrarci come Pisacane fosse un buon profeta.
Andiamo al bel saggio di Rosselli.
Il passo proposto da Leogrande inizia con una dissertazione sul “Testamento politico” di Pisacane, che Rosselli trova come scritto d’impulso, quasi anomalo, con un accenno al socialismo sì comprensibile per tutti gli avventori, ma anche un po’ denaturato dall’assenza dei costrutti teorici conclusivi degli studi del napoletano. Pur non dicendoci nulla di esplicito in proposito, è evidente che Alessandro condividesse l’opinione di Rosselli, un punto sul quale siamo certamente d’accordo. Ma l’impeto si spiega, a nostro avviso, con il poco tempo a disposizione. Non ci pare un caso infatti che Pisacane non l’avesse scritto il giorno prima della programmata partenza, il 13 giugno, ma il 24 giugno, quando le speranze di riuscita della Spedizione fossero da considerarsi più flebili data la scarsità dei fucili e data l’impreparazione dei napoletani ad insorgere che egli aveva sondato nel suo breve soggiorno esplorativo a Napoli dal 13 al 16 giugno 1857, città in cui si recò al posto di Cosenz.
Facendo seguire, nel suo saggio, l’estratto di Rosselli a quello di Pisacane, Leogrande fa un’operazione di interscambiabilità. Talvolta leggendo le parole di Rosselli si ha l’impressione che continui a parlare Pisacane, si percepisce lo stesso tipo di tensione interna – il giogo degli oppressori – che deve aver animato la penna dei due scrittori; come a dire il ricorso al canovaccio dei grandi flussi e riflussi storici, caro alla più nobile letteratura. Non interessa al tarantino riportare l’approfondimento dell’impianto filosofico-economico, lo studio delle fonti e dell’origine del socialismo che tanto avevano impegnato Rosselli nei primi suoi capitoli. Alessandro, come abbiamo visto nella sua prefazione, aveva posto in risalto semplicemente, ma efficacemente, l’esito finale di quei studi del patriota napoletano: la necessità della “Rivoluzione”.
Rosselli ci parla qui essenzialmente della Spedizione di Sapri, dalla rocambolesca partenza da Genova di un pugno di uomini, della sosta a Ponza, sino al massacro di Sanza. D’altro canto Alessandro ci aveva preavvertito, nelle sue prime pagine, della necessità di far riemergere il coraggio di Pisacane non solo nelle parole ma nei fatti ovvero, mutuando il linguaggio dell’epoca, nella nobiltà del martirio. E il capitolo si conclude – non a caso – con uno dei più vibranti passaggi di Rosselli, quello in cui il toscano asserisce che sulla vita e sulla morte di Pisacane “si poteva posare, e posa, uno dei piloni granitici dell’edificio italiano”.
La scelta di Leogrande di inserire alla fine “La Spigolatrice di Sapri”, che generazioni di italiani hanno recitato a scuola, appare dettata da motivi nostalgici, verso quella poesia che riuscendo ad emozionare, da sola varrebbe quanto il gesto d’eroismo, preservandone la memoria. Poco importa se “La Spigolatrice” per alcuni dettagli è distante dalla realtà dei fatti (sì erano 300 ma grano non ce n’era e nemmeno ragazze che diedero aiuto ai rivoltosi).
Ma ad Alessandro serviva probabilmente una pausa, prima di passare alle conclusioni, da lui curate.
Qui egli torna a parlare in generale dell'”Altro Risorgimento“ quello, come dicevamo, uscito sconfitto da “Italia e Vittorio Emanuele”, quello che fin dal 1799 ha combattuto per la Repubblica e la redenzione del popoli per poi infine opporsi alle antidemocratiche, e soprattutto anti-risorgimentaliste, politiche coloniali di fine Ottocento. Insomma entra, alla fine, nel vivo del tema proposto dal titolo del suo libro: il “destino amaro”, stretto in una “morsa terribile”, “vilipeso da ogni forza che trae alimento (al Nord come al Sud) dallo sgretolamento del Paese, dalla crisi dello Stato” …ovvero… “quello di un’intera generazione che si abbeverò all’idea di rivoluzione e di insurrezione, e che bruciò i propri anni migliori sull’altare di un desiderio di liberazione che dovesse essere innanzitutto auto-liberazione”. Del Risorgimento nel suo complesso, invero, Leogrande eleva a dignità storica il “confronto serrato, acceso, spesso virulento tra moderati e democratici…” e come ciò abbia “sprigionato acute riflessioni, balzi in avanti, e un intreccio tra pensiero e azione spesso lungimirante”.
E arriva il passaggio più acuto della riflessione di Leogrande che qui si infervora: “Sorgere dal basso, coinvolgere le masse, salire sulle barricate, spazzare via il vecchio, scrivere nuove costituzioni, allargare spazi di giustizia…” poi l’affondo deciso, la pietra miliare: “Un Risorgimento rivoluzionario che è stato faro in Europa e che ha posto al centro della propria azione un’idea (nostro il sottolineato) che avrebbe avuto lungo corso nel secolo successivo, in tutte le lotte anti-colonialiste: non c’è libertà senza indipendenza; e non c’è indipendenza senza un sufficiente grado di autonomia che può essere raggiunto solo nel superamento della frantumazione territoriale. Una penisola ridotta in granelli di sabbia non può non essere soggetta a quei venti che spireranno più forti”.
Alessandro sente anche il dovere di omaggiare Mazzini. Nessuna dietrologia ma rispetto per il Padre della Patria, per il suo cosmopolitismo, la sua tenacia nonostante la serie continua di insuccessi. Fa riemergere il pensatore, l’uomo che ha sempre osato e non si è mai arreso e anche l’attento polemista che per esempio definì le tendenze politiche del suo ex amico Crispi come “guicciardinesche”.
Tra gli scritti di Mazzini, ciò che ha interessato maggiormente il filosofo Leogrande sono quelli giovanili dove ci invita a riflettere su un punto centrale, la presenza di “un mucchio di parole impronunciabili: rivoluzione, insurrezione, mutamento radicale… perfino qualcosa che abbia a che fare con l’epurazione”. Ricorda come il tentativo di “eliminare” il repubblicanesimo, ovvero della parte più audace del Risorgimento, avvenne già con l’Unità d’Italia, ad opera del nuovo patto monarchico al quale aderirono ex repubblicani. Aggiunge come Mazzini, ben sapendo l’oblio e la “morte solo come un cane” a cui sarebbe andato incontro, avesse comunque continuato la sua lotta cercando di coinvolgere gli operai con “I Doveri dell’Uomo”, ovvero lo scritto con cui Mazzini, nell’intento di “superare l’analisi classista della società”, “colse qualcosa di molto importante… Primo: l’importanza della cultura. Secondo: i lavoratori non potevano isolarsi nella lotta contro l’oppressione”.
Chi si aspettasse di trovare nelle ultime pagine del saggio di Leogrande un’ultima riflessione su Pisacane rimarrebbe sorpreso, ma non deluso. Alessandro vuole andare oltre, spiazzandoci. Anziché Pisacane ricorda invece la figura di Ippolito Nievo e lo fa beninteso a modo suo, non citando una delle sue opere più note, come una delle bellissime pagine delle “Confessioni di un Italiano”, ma sceglie, disorientandoci, un passaggio del resoconto di Nievo nella sua veste di tesoriere della Spedizione dei Mille. Negli appunti di Nievo che Alessandro trascrive ci sono semplicemente conti, si parla in particolare di scarpe e di come questo indumento fosse stato cosi prezioso e allo stesso tempo talvolta quasi introvabile nei lunghi spostamenti da lasciarlo in costante apprensione. La descrizione della pazienza certosina di Nievo – nel trovare giornalmente la soluzione a questo problema – tocca le corde dell’animo con inaspettata potenza, e ci appare quasi una licenza poetica, anzi la miglior strofa che Alessandro potesse aggiungere alla Spigolatrice di Sapri.
Come i grandi giornalisti d’inchiesta, come i grandi narratori dei nostri tempi, Alessandro era anche un immenso poeta. Giustamente definito scrittore – e poeta – degli ultimi.
Valerio Lisi