Mi sono trovato a rileggere, in questo periodo, “la trilogia araldica” calviniana, in cui compare il racconto-romanzo “Il cavaliere inesistente”.
Un po’ tutti conosciamo la storia di Agilulfo, il cavaliere che non esiste. Nella sua splendente armatura, infatti, c’è il vuoto, e per questo Agilulfo è deriso e schernito da tutti i suoi commilitoni. Tuttavia, nonostante questo impedimento, egli è il migliore dei combattenti dell’esercito francese. Il presente della storia è quello dell’infinita guerra tra esercito francese, guidato da un buffo e improbabile Carlo Magno, ed esercito turco, gli infedeli. È una guerra che trova il suo simbolismo non nello scopo, ma nella sua stessa infinita presenza, come osserva lo stesso Torrismondo, personaggio del racconto:
La guerra durerà fino alla fine dei secoli, e nessuno vincerà o perderà […] e senza gli uni gli altri non sarebbero nulla, e ormai sia noi che loro abbiamo dimenticato perché combattiamo.
Agilulfo, come ben sappiamo, rappresenta nella sua inesistenza quella figura di intellettuale dei nostri tempi, sorretto dalla sua armatura che rappresenta, in realtà, le sue riserve mentali. Una figura inascoltata, incapace di comunicare col mondo, sempre pronto a recitare la sua parte civile o politica con perfetto schema. E lo stesso Calvino nella postfazione ci dice per quale motivo Agilulfo è inesistente, rispetto al mondo:
Dall’uomo primitivo che, essendo tutt’uno con l’universo, poteva esser detto ancora inesistente perché indifferenziato dalla materia organica, siamo lentamente arrivati all’uomo artificiale che, essendo un tutt’uno coi prodotti e con le situazioni, è inesistente perché non fa più attrito con nulla, non ha più rapporto (lotta e attraverso la lotta armonia) con ciò che (natura e storia) gli sta intorno, ma solo astrattamente «funziona».
E nel racconto:
La notte calma era percorsa soltanto dal soffice volo di piccole ombre informi dalle ali silenziose, che si muovevano intorno senza una direzione nemmeno momentanea: i pipistrelli […]. Una rabbia indeterminata, che gli era cresciuta dentro, esplose tutt’a un tratto: trasse la spada dal fodero, l’afferrò a due mani, l’avventò in aria con tutte le forze contro ogni pipistrello che s’abbassava. Nulla: continuavano il loro volo […]. Agilulfo mulinava colpi su colpi; ormai non cercava nemmeno più di colpire i pipistrelli; e i suoi fendenti seguivano traiettorie più regolari, s’ordinavano secondo i modelli della scherma con lo spadone; ecco che Agilulfo aveva preso a fare gli esercizi come si stesse addestrando per il prossimo combattimento e sciorinava la teoria delle traverse, delle parate, delle finte.
Questo Agilulfo. Viene da ricordare quasi un Don Chisciotte della Mancia, ma la sua condizione è molto più di quella solitudine: è un’alienazione dovuta ad un anti-intellettualismo dilagante, ad un’ incapacità di prospettive entusiasmanti, ad una volontà che sembra non avere più senso e che esiste solo come ruolo. Così mi vengono in mente certe isole felici, qui da noi, in cui si avverte la perenne costanza della guerra, la quale non sembra avere scopo, né capo né coda, ed è solo un nuvolone di polvere in cui ci si azzuffa tutti insieme, ognuno con la propria spada o scimitarra. Ogni mese, più o meno, timidi tentativi di proposte, analisi meno complesse di quanto si possa immaginare, buffonate e sghignazzi superiori affollano questo scenario dell’inesistente, molto spesso condito di buone pratiche che celano sempre l’esistente gioco di forze da cui non si riesce a spezzare la continuità.
A partire da questi giorni, poi, molti di questi cavalieri cominciano a serrare le file per le prossime amministrative del 2017, lasciando intuire la costruzione di un carro carnevalesco, forse più pauroso dell’attuale confusione, o forse uguale, perché l’importante in questa guerra non è vincere, ma sopravvivere continuando a far combattere altri soldati.
Nel racconto Calvino però ci regala un personaggio, che è il vero protagonista, si chiama Rambaldo ed è un giovane combattente inesperto, appassionato; vuole vendicare la morte di suo padre. Calvino nella postfazione ci dice:
il vero protagonista di questa storia. Rambaldo, paladino stendhaliano, cerca le prove d’esserci, come tutti i giovani fanno. La verifica dell’essere è nel fare; Rambaldo sarà la morale della pratica, dell’esperienza, della storia.
E nel racconto:
Rambaldo trascina un morto e pensa: “O morto, io corro corro per arrivare qui come te a farmi tirar per i calcagni. Cos’è questa furia che mi spinge, questa smania di battaglie e d’amori, vista dal punto donde guardano i tuoi occhi sbarrati, la tua testa riversa che sbatacchia sulle pietre? Ci penso, o morto, mi ci fai pensare; ma cosa cambia? Nulla. Non ci sono altri giorni che questi nostri giorni prima della tomba, per noi vivi e anche per voi morti. Che mi sia dato di non sprecarli, di non sprecare nulla di ciò che sono e di ciò che potrei essere. Di compiere azioni egregie per l’esercito franco. Di abbracciare, abbracciato, la fiera Bradamante. Spero che tu abbia speso i tuoi giorni non peggio, o morto. Comunque per te i dadi hanno già dato i loro numeri. Per me ancora vorticano nel bussolotto. E io amo, o morto, la mia ansia, non la tua pace”.
Quel “fare” in Rambaldo non è da confondere col “fare” minuzioso e giusto di Agilulfo, è un fare conflitto, un gettarsi nella mischia, con la mente in subbuglio, nel caos della battaglia, senza più alcun fine se non quello immediato di prendervi parte, è il desiderio di esserci, di determinare. Tuttavia lo stesso Calvino sa bene che neppure Rambaldo e la sua passione bastano a sbrogliare i fili che muovono i numerosi intrecci delle vicende e del mondo. Per questo inserisce numerosi altri personaggi che si caratterizzano nelle loro espressioni più fantasiose e divertenti. C’è Gurdulù, il Sancho Panza di Agilulfo, il quale, al contrario del suo signore, “c’è ma non sa di esserci”: un personaggio che si immedesima in tutto ciò che vede o che tocca. C’è Bradamante, la donna-cavaliere innamorata di Agilulfo («quando una si è tolta la voglia di tutti gli uomini esistenti, l’unica voglia che le resta può essere solo quella d’un uomo che non c’è per nulla»), ma che poi si unirà a Rambaldo. C’è Torrismondo, Sofronia e poi la grottesca confraternita del San Gral, Ordine di cavalieri solitari dediti ad una vita austera e piena di prediche, ma che non esitano a prendere le armi per estorcere tributi.
In questo enorme scenario i nostri personaggi concludono le loro storie in un apparente lieto fine, ove campeggia un accontentarsi generale delle proprie sorti. Agilulfo è già fuggito da tempo, spogliato definitivamente della sua armatura; l’autore stesso non ci rivela quale incarnazione è succeduta alla sua inesistenza. Forse è un po’ come quella frase di Majakowskij o forse no:
In una nave che affonda gl’intellettuali sono i primi a fuggire subito dopo i topi e molto prima delle puttane.