A Taranto, la questione culturale ha ripreso vigore negli ultimi anni; è fondamentale affrontare questo tema, soprattutto se si considerano le recentissime vicende legate alla questione della Soprintendenza, che non è un problema tarantino ma nazionale, e che contribuiscono a rendere ancora più attuale questo dibattito dal titolo volutamente ambizioso.
A tre anni da “Cultura: una sfida capitale”, la nostra prima uscita pubblica sul tema in occasione della candidatura di Taranto a Capitale Europea della Cultura, abbiamo ritenuto utile tornare sulla questione, forti di tre anni di studio, approfondimento e cambiamenti. In quella sede si tentò di delineare alcune direttrici programmatiche che legassero le istanze culturali a quelle urbanistiche, tracciando un asse dall’arsenale alla città vecchia, lungo il quale impiantare, soprattutto attraverso il recupero di spazi come i Baraccamenti Cattolica, il Cineteatro Verdi, il Palazzo degli Uffici, una serie di luoghi a disposizione dell’associazionismo – o deputati alla cultura in senso stretto (con una particolare attenzione alla grande assente in città: la Pinacoteca). La proposta rappresentava fondamentalmente un cambio di orientamento dal punto di vista politico: prevedeva investimenti a lungo termine e valorizzazione tanto degli spazi in disuso quanto delle competenze presenti sul territorio, trattenendo così gran parte dei giovani formati.
L’iniziativa di oggi intende toccare tre punti fondamentali:
– quello della cultura come fondamento del senso di comunità a Taranto, e si considererà l’esempio virtuoso di Matera;
– quello delle prospettive culturali per la nostra città, ovvero quegli interventi che dovrebbero far arrivare preparata la città non solo all’appuntamento con il 2019, ma in generale con il futuro;
– quello della cultura come opportunità di lavoro.
Ecco perchè il dibattito odierno non si pone come obbiettivo quello di indicare un palinsesto di iniziative o eventi che possano attuarsi in vista di quell’appuntamento. Con questo non vogliamo dire che l’economia non possa girare attorno alla cultura, anzi: l’economia deve girarle proprio attorno, nel senso dell’indotto, ma non si può limitare la discussione sulla cultura alla cartellonistica nei mesi caldi dell’anno, turisticamente parlando.
Ma quando parliamo di cultura, dobbiamo tenere presente almeno un doppio binario: innanzitutto quello della valorizzazione di chi è in grado di orientare le scelte in questo campo, e parlo degli operatori; in seconda istanza, quello del recupero del senso di essere comunità, la cultura appunto dell’essere comunità. Binari che devono procedere parallelamente e diretti verso un’unica direzione.
Cultura e politica.
È anche un’iniziativa con la quale cerchiamo di spiegare cosa c’entri la politica con la cultura, chiarendo le posizioni rispetto a chi porta avanti l’idea che la cultura, essendo indipendente, non c’entri nulla – né debba c’entrare – con la politica. In realtà, i due piani sono più compenetrati di quanto si immagini.
Tremonti coniò il famoso “Con la cultura non si mangia”; Renzi e compagnia non sono da meno: da una parte piegano completamente la cultura – e in particolare il patrimonio – alle logiche del mercato, parlando a sproposito di valorizzazione; dall’altra promuovono costantemente il ricorso al volontariato proponendo un gioco al ribasso sulle professioni legate al patrimonio culturale, a scapito della tutela dello stesso.
La stessa inclusione all’interno del Ministero delle competenze relative al Turismo ha finito con lo snaturare il concetto stesso di cultura legandola indissolubilmente al mercato. Si tratta di un cambiamento non indifferente: da diritto, così come sancito nell’art. 9 della Costituzione, la cultura torna ad essere qualcosa di esclusivo, qualcosa di cui possa giovarsi solo chi può permetterselo economicamente.
Ma il ruolo che la politica può e deve avere nella cultura è un altro.
Eric Hobsbawm (2002) mette in evidenza l’influsso crescente del mercato in quello che chiama “gioco della cultura”; il ruolo della politica è quello di erogare o negare dei sussidi. Ma afferma anche che per far sì che l’unica cultura promossa non sia quella rispondente ai soli criteri di mercato, è necessario trovare “modi alternativi per assicurare la produzione di quello che diversamente il mercato escluderebbe”. Nella erogazione/negazione ci deve essere, dunque, una norma, una discrezionalità. Questa è individuata nel “meccanismo morale” che “definisce e scoraggia l’inammissibile” o “impone il desiderabile”: è questo un altro dei ruoli della politica nel “gioco della cultura” in quanto il mercato decide solo “cosa frutta o meno denaro, non quello che si dovrebbe o non dovrebbe vendere”. (1)
Ecco: il legame sempre più stretto tra cultura e turismo ha orientato le scelte politiche più verso il mercato che verso i bisogni della collettività. Ciò ha provocato una grande scissione tra la cultura e il mondo del lavoro, relegando i professionisti – che sono gli attori fondamentali, perché hanno gli strumenti per riconoscere qualitativamente le proposte – a un ruolo che rasenta l’inutilità, mortificandone le competenze; inoltre, l’altro attore fondamentale, che è la società, non ha alcuna voce in capitolo. Il “meccanismo morale” si è, evidentemente, inceppato.
Per questo diciamo che cultura è innanzitutto lavoro. Un lavoro, peraltro, di grande responsabilità perché va ad operare sulla coscienza civica di ogni cittadino. E la politica che guarda oltre il presente deve avere questo come obbiettivo principale: la costruzione di una comunità. Diciamo pure che la cultura, in senso più generale, costituisce l’anima di una società e deriva essenzialmente da una comunità di intenti: laddove, come a Taranto, questa manca perché la città è dispersiva, la società sfilacciata e senza punti o luoghi di riferimento, senza più un’identità, essa va ricostruita attraverso la conoscenza. Per questo siamo convinti che la diffusione della conoscenza crei cittadinanza e, di conseguenza, consapevolezza e rispetto. Per questo è necessario che una tale operazione venga portata avanti innanzitutto dagli operatori culturali che non possono, in alcun caso, piegarsi alle logiche deleterie del volontariato, proprio perché la loro funzione di orientamento delle scelte è fondamentale.
Taranto e la cultura: un rapporto travagliato.
L’approssimazione, a Taranto, ha portato a non poche situazioni di frustrazione: la candidatura a Capitale Europea della Cultura è fallita; recentemente è fallita anche quella a Capitale Italiana della Cultura. Un maggiore coinvolgimento degli operatori culturali avrebbe probabilmente orientato verso la saggia scelta di non candidarsi viste le condizioni in cui si presenta la città, fornendo magari delle indicazioni di rotta per un futuro ed evitando le grottesche gaffes alle quali si è assistito. Invece, con maggiore insistenza si è fatta strada una sorta di pressappochismo nelle questioni della cultura, sempre più lasciate alla mercé del volontariato, spesso nemmeno debitamente formato.
Alle retoriche calate dall’alto della cultura come “cibo per la mente”, del patrimonio come “petrolio”, del “si può campare di turismo”, promosse da questo Governo, Taranto ha risposto nella peggior maniera possibile: coniando svariati brand attraverso l’utilizzo strumentale di frammenti di storia, pezzi del Museo sbandierati come feticci, caratteristiche naturali, tradizioni, al fine di richiamare turisti da trattare, magari, come portafogli ambulanti. A ruota si è assistito a tentativi di apporre questa o quell’etichetta su una scatola dal contenuto in putrefazione. La trasformazione della città in un “Luna Park del passato” – per utilizzare un’espressione cara a Tomaso Montanari – dovrebbe, secondo alcuni, risolvere il problema economico e costituire un’alternativa alla monocoltura dell’acciaio. Niente di più falso: innanzitutto, una storia plurimillenaria come quella di Taranto non può essere ridotta sotto alcun brand che ne esalti un unico aspetto (è una cosa anche commercialmente fallimentare); ma non ci si possono aspettare le orde di visitatori che accolgono – anche a loro discapito – città come Roma, Venezia o Firenze.
È impossibile immaginare scenari del genere mentre ci sono scuole come il Liceo Artistico che da anni cerca una sede consona o l’Istituto Musicale Paisiello che è sempre sull’orlo della chiusura; mentre è invece chiuso il corso di laurea in Beni Culturali e lascerà il territorio anche la sede della gloriosa Soprintendenza dei Beni archeologici di Puglia. Ma soprattutto è impensabile una prospettiva di rilancio culturale nelle attuali condizioni urbanistico-architettoniche della città. A fronte di qualche strada tirata a lucido, abbiamo interi quartieri che, al loro interno, si sbriciolano e imputridiscono lasciati a se stessi e alla popolazione che li vive quotidianamente, sempre più esclusa dalle dinamiche non solo culturali, ma anche economiche, sociali e, in generale, politiche dei salotti buoni della città.
Mens sana in corpore sano.
Il continuo richiamo all’urbanistica non è un vezzo: viene fuori da una constatazione fatta costantemente e sul campo di come la cultura e la città siano l’una l’anima dell’altra e che vale, per questi due aspetti, la locuzione “Mens sana in corpore sano”. Per questo, oltre al necessario risanamento delle zone disagiate – non solo città vecchia, ma anche parte del Borgo, per non dire delle periferie –, va considerata la necessità di fornire ognuna di queste aree di luoghi culturali in cui la gente possa incontrarsi e crescere in cittadinanza: biblioteche di quartiere, progetti di Museo diffuso, Mediateca, Fototeche, Auditorium. Luoghi in cui la cultura si fa e che permetterebbero ai cittadini delle zone più disagiate di avere il proprio punto di riferimento, di non sentirsi abbandonati al proprio destino. In questo modo la cultura, sostenuta dalla politica, può permettere la ricostituzione di quel tessuto connettivo che leghi l’abitante al luogo in cui abita in rapporto con gli altri abitanti: formando dunque cittadini membri di un’unica comunità che si riconosca nella propria storia. Ma questa operazione può, altresì, fornire lavoro ai tanti giovani formati che devono combattere tra mille peripezie per far valere le ragioni della propria professionalità. Un concetto che fa il paio con quello di “visione” che ha informato la candidatura – e probabilmente la storia degli ultimi 50 anni – di Matera.
Il cambio di direzione alla guida del Museo e le prime dichiarazioni della nuova direttrice Eva degl’Innocenti, hanno aperto alla concezione che il Museo debba essere per i cittadini prima ancora che per i turisti e che debba recuperare il proprio rapporto con la città, candidando il M.Ar.TA. a divenire l’attore traino del rinnovamento culturale cittadino.
Il cosiddetto decreto Taranto del 2015 e il conseguente Contratto Istituzionale di Sviluppo, prevedono inoltre lo stanziamento di fondi per il risanamento della Città Vecchia ma anche per la conversione in chiave culturale dell’Arsenale Militare nella sua area in disuso. Il riferimento all’Arsenale è molto importante perché riporta a uno degli attori principali che, nel presente e per il futuro, dovranno essere coinvolti nelle politiche culturali: la Marina Militare. L’area al di là del “Muraglione”, se debitamente valorizzata, potrebbe essere trasformata in un importante sito di archeologia industriale. Un tale ripensamento dell’area in questione permetterebbe, inoltre, di salvare la percezione di un luogo – l’Arsenale – che comunque appartiene alla cultura operaia tarantina come elemento identitario, in cui una parte di popolazione ancora si riconosce. Come lo stesso Prof. Covino ricorda, “nei casi in cui la dismissione di una realtà industriale assume forme devastanti, essa produce una crisi d’identità e coesione sociale, elementi senza di cui nessuna comunità è governabile”. Ecco la funzione dell’archeologia industriale e, più in generale, del patrimonio. Una funzione che può essere tenuta in vita a Taranto, città dalla forte impronta industriale, attraverso anche un ripristino del rapporto tra i cittadini e le testimonianze, anche artistiche, degli ultimi centocinquant’anni.
E sempre legato alla Marina è il Castello, nel quale si è potuta verificare, in maniera quasi tattile, la consequenzialità tra la ricerca ben condotta – dunque un’operazione di tutela – e la valorizzazione del monumento.
L’altro attore deve essere la Curia, con il suo Museo e le sue Chiese, magari prendendo esempio dalla “Napoli Museo Aperto” dove è stata permessa la riapertura di tante chiese altrimenti inaccessibili coinvolgendo giovani il cui lavoro viene retribuito. Né si possono ignorare tutti quegli attori sociali che lavorano quasi nell’ombra mentre i riflettori sono puntati su altro: quei focolai di idee e progetti che probabilmente sono stati traditi dagli esiti delle politiche regionali vendoliane ma che, nonostante tutto, continuano la loro opera aprendo sipari su aspetti non opportunamente analizzati ai piani cosiddetti “alti” della conoscenza.
Certo, per un buon progetto per il futuro, l’Università va tenuta presente, ma anche ripensata nella sua funzione sociale, affinché esca da quella autoreferenzialità accademica che, probabilmente, è stata una delle ragioni – se non la principale – dell’eclissi della figura dello studioso. Sempre più serrato all’interno di ranghi specialistici, spezzettati e minimali, il ricercatore ha vissuto uno scollamento dalla realtà, una perdita del senso del proprio mestiere e, di conseguenza, gli è stato impedito di essere, oltre che studioso, un intellettuale. Tanto che la parola “intellettuale” è sempre più spesso pronunciata, oggi, con disprezzo. Ma esempi virtuosi di cooperazione tra Università e territorio ce ne sono: Matera è uno di questi, ma potremmo parlare anche del nostro Castello Aragonese.
Cultura è lavoro.
Ma vogliamo ribadirlo ancora una volta: gli attori principali in grado di indirizzare la politica verso delle scelte di qualità e, contestualmente, assurgere a quel ruolo di divulgazione delle conoscenze che è fondamentale alla costruzione della comunità, sono gli operatori della cultura. Parliamo di persone che hanno investito anni nella formazione umanistica al fine di tramandare, non per missione umanitaria ma per professione, la propria conoscenza alle generazioni future. Così come viene presentata oggi, l’unico sbocco che possa dare la cultura sembra essere il fare le comparse in costume, i camerieri nei ristoranti, i receptionists.
Noi non vogliamo che sia così: e vorremmo chiudere con una citazione da Salvatore Settis che raccoglie il senso di questo discorso:
“Una città di cittadini consapevoli di sé e della propria cultura specifica è più ospitale, più interessante, più lieta anche per i turisti; una città di servitori lo è assai meno.” (2)
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* Relazione introduttiva al dibattito “Cultura è Lavoro – prospettive per Taranto verso Matera 2019, promosso dal circolo Peppino Impastato di Rifondazione Comunista, il 29/01/2016
(1) – E. J. Hobsbawm, Politica e cultura nel nuovo secolo (2002), in Idem, La fine della cultura. Saggio su un secolo in crisi d’identità, Milano, BUR 2014, pp. 57-58
(2) – S. Settis, Se Venezia muore, Torino, Einaudi 2014, p. 132